Giuseppe Pontremoli, Andrea Rosso

L'incredibile storia del cardellino dipinto


Angelo o demone che tu sia, nobile cardillo

 

 

Questo difetto che noi due abbiamo, di raccogliere cardellini nei quadri e nelle pagine, inizialmente, non ebbe conseguenze rilevanti. Ci comunicavamo che anche Lorenzo Lotto, che anche Elsa Morante, avevano dipinto e scritto di cardellini e questi ritrovamenti ci piacevano in sè, non avevamo alcuna intenzione di dare loro un significato. Un'accumulazione: anche Bosch e anche Anna Maria Ortese, anche Goya e anche Leonardo da Vinci, anche Caravaggio e anche Mallarmé, anche Raffaello e anche Pirandello, anche Mirò e anche Calvino... Questo gioco primitivo dell'addizione di cardellini, era divertente perché assolutamente inutile, come tutti i giochi. Si poteva chiacchierare del Rinascimento italiano con la stessa barocca e appassionata insistenza con cui si parla di calcio nei bar, indugiando su particolari così minuti, su circostanze così malamente correlate, che si doveva alla fine per forza ridere di noi. Abbiamo anche imparato un sacco di cose per scherzo.

Ma poi le cose sono andate diversamente. Se vogliamo cercare un momento, è stato quando abbiamo trovato due penne di cardellino, due penne vere, belle gialle e nere, proprio sotto casa mia. In tutta una vita dedicata allo studio della natura del Mediterraneo, di cui il cardellino è un familiare rappresentante, quasi un simbolo alato, non era mai capitato una volta.

Dal momento di quel profetico ritrovamento abbiamo smesso di giocare candidamente all'addizione. Avvelenati dalla febbre del significato, che si manifestò in forma di delirio tassonomico, abbiamo dovuto risolverci a definire una nuova entità biologica, Carduelis carduelis picta, da cui nel tempo abbiamo fatto discendere una imbarazzante moltitudine di varietà. Ormai i ritrovamenti, che non cessavano, dovevano avere un contenitore, una gabbia in cui sistemarli. E proviamo vergogna, oggi, per il modo inutilmente bugiardo con cui abbiamo forzato non so quanti cardellini nella gabbia che ci faceva più comodo. Né ormai ci facevamo scrupolo di escludere cardellini che non quadravano con i nostri più recenti preconcetti. Quelle penne scrissero il nostro destino come una firma, non diversamente da quanto accadde, come vi è certamente noto, ad Antonio da Crevalcore. Furono l'inizio di una trasmutazione simile a quella di cui fu vittima Giacomo Desti, il pittore cremasco che volle chiamarsi, semplicemente, "Il Cardellino". Misero sulla nostra esistenza una pietra tombale, come quella, per capirci, su cui se ne stanno i cardellini del Ghirlandaio (Carduelis carduelis picta sylvestris intermedia). Il nostro carattere si plasmò sulla doppiezza dei cardellini di Bosh e, ancor più, su quella del cardellino di Lorenzo Lotto (Carduelis carduelis picta ambigua). Provammo la superiore indifferenza del cardellino del Montagna (Carduelis carduelis picta profetica), il dolore di essere attaccati a una corda nei quadri, tesa e rozza che fosse, come in quelli del Crivelli (Carduelis carduelis picta familiaris captiva stricta) oppure mollemente distesa, come in quelli del Tiepolo o, massimamente, di Rubens (Carduelis carduelis picta familiaris captiva mollis). Provammo la stretta tenera tra le mani dei Bambini di Raffaello (Carduelis carduelis picta familiaris) e quella arrogante di Giovanni dei Medici del Bronzino (Carduelis carduelis picta familiaris ferocis)...

Per intelligenza, nessuno di noi due può essere paragonato a Charles Darwin. Ma è anche vero che i cardellini sono anch'essi fringuelli, come quelli delle Galapagos. Così delle due condizioni per paragonare questo lavoro al celebre esperimento che aprì le porte alla biologia moderna, ce ne manca in fondo soltanto una.

Ed è questo che ci ha incoraggiato ad illustrare qui in dettaglio la morfologia e il comportamento, le distribuzioni e le occorrenze, il fenotipo e la filogenesi, la sistematica e la varianza, l'istinto, l'indole, la capacità simbolica ed espressiva di questo leggerissimo e musicale miscuglio di bianco, rosso, giallo e nero.

Tutto ciò ci ha profondamente cambiati. Oggi vivamo a New York, in una gabbia sistemata nella tela di Francisco Goya, nel Metropolitan Museum. Si può uscire e cantare solo di notte, perché Manuel Osorio Manrique de Zuñiga si è attaccato a un filo una cornacchia nient'affatto amichevole, per non parlare del gatto che è alla vostra sinistra. Abbiamo altri compagni e compagne nella gabbia, e ci danno regolarmente da mangiare, ma non siamo felici.






 

Meglio non averlo imparato, il linguaggio degli uccelli

 

 

 

Mio padre non era svizzero, non era un vecchio conte, e non aveva un unico figlio. Aveva un solo figlio maschio, questo sì, ma non era sicuramente e lo dico con baldanzoso puntiglio non era sicuramente quel padre di cui avevano parlato Jacob e Wilhelm Grimm. Questi, infatti, parlando di quel vecchio conte svizzero, per giunta dicevano che il suo unico figlio era «così stupido che non riusciva a imparar nulla». Ebbene, no; mio padre non aveva davvero un figlio così.

E nemmeno era mio padre, intendo quel «ricco mercante» di cui parla Italo Calvino nelle Fiabe italiane, il quale «aveva un figliolo a nome Bobo, sveglio d'ingegno e con gran voglia d'imparare». Certo, trovarsi a essere e chiamarsi Bobo non è cosa da poco, ma quella definizione di «sveglio d'ingegno» e l'affermazione relativa al desiderio di sapere potrebbero stuzzicare vanità anche ben meno accentuate di quella che ha frequentato da sempre l'unico figlio maschio di mio padre. Individuo, questo il figlio, intendo , che, in cambio di tali caratterizzazioni, forse con non più che qualche mugugno, comunque finito in sé avrebbe sicuramente anche accettato il pur disperante nome di Bobo. Ma queste sono solo congetture, perché per davvero non è andata così.

Niente Svizzera, quindi; e niente conte, e niente ricco mercante. E niente, dunque, figlio tanto stupido da non riuscire a imparare nulla né tanto sveglio d'ingegno e provvisto d'acuto desiderio di sapere.

E infatti, a differenza del vecchio conte e del ricco mercante, che affidarono i figli l'uno a un «maestro famoso» perché si provasse a ficcargli qualcosa nella testa e l'altro a «un maestro assai dotto, perché gl'insegnasse tutte le lingue», mio padre non affidò il suo unico figlio maschio ad alcun dotto o famoso maestro; si limitò a fargli frequentare la scuola pubblica, dove peraltro si cimentò con il leggere e scrivere e fare di conto sotto la guida di una maestra; maestra che non so bene quanto dotta fosse, e che probabilmene era allora diventata famosa non per altro che per il carico d'anni che aveva accumulato.

Da parte sua, mio padre, al suo unico figlio maschio e al di là di quanto costui ne abbia effettivamente imparato, che è argomento che qui non interessa , insegnò delle cose: ad andare nei boschi con il cane; ad aiutare in casa, nei lavori domestici; a costruire zufoli; a ricercare un'etica; a incantarsi alle storie. E ne ha narrate tante, di storie, mio padre: fiabe, leggende, favole, vicende d'ogni giorno, vicende di misteri, vicende di animali.

Tra tutte queste storie, raccontò anche quella del vecchio conte svizzero, I tre linguaggi, dei fratelli Grimm. Dove si racconta che quel figlio così stupido viene mandato da tre famosi maestri perché impari qualcosa. E qualcosa l'impara, quello stupido, ma tutt'e tre le volte con il risultato di aumentare lo sconforto e la rabbia del padre: effetto che è lo stesso prodotto in colui che aveva affidato il figlio al «maestro assai dotto» di cui si racconta nella fiaba Il linguaggio degli animali di Calvino. Medesimo effetto come medesimi sono gli apprendimenti dei figli: tanto lo stupido quanto lo "sveglio d'ingegno" imparano infatti nient'altro che il linguaggio degli animali.

A prescindere per un momento dagli sviluppi immediati delle due vicende visto che entrambi i padri decidono di disfarsi dei figli facendoli uccidere so per certo che all'unico figlio maschio di mio padre l'apprendere quel linguaggio avrebbe procurato nient'altro che un piacere ben più che infinito.

Ma così non è stato, ed ora è senz'altro un po' tardi un po' troppo.

Ora è arrivato un tempo diverso. Mio padre non c'è più, quei maestri chissà dove sono forse in un certo reame, in un certo stato, in un paese lontano lontano , e anche il cammina cammina è sempre più costellato da soste. E poi m'è intervenuta un'altra cosa a me, sì, giacché sono io quell'unico figlio maschio di mio padre : m'è sopravvenuto un bisogno. E butterò lì un sospetto, un sospetto-timore: quando interviene un bisogno di questo tipo è forse davvero irrimediabilmente lontano il tempo di «quando desiderare era ancora possibile». E forse è davvero così, perché il bisogno sopravvenuto è nient'altro che questo: trarre qualche consolazione comunque, da tutto e sopra di tutto.

E così m'è accaduto di fare una pensata: meglio che sia andata così, meglio che non abbia imparato il linguaggio degli animali, perché mi sarebbe poi stato inevitabile finire male. Non certo per le conseguenze immediate di quell'apprendimento, giacché sia il figlio stupido sia quello sveglio d'ingegno non muoiono, bensì per le conseguenze estreme, quelle sulle quali si chiudono le due fiabe.

Infatti a quei due figli non andò come in quell'antica fiaba russa, Il linguaggio degli uccelli, in cui Afanasjev racconta che «vivevano in una certa città un mercante e una mercantessa, e il Signore diede loro un figlio con una intelligenza superiore alla sua età, che aveva nome Vasilij». Vasilij, quando i genitori scoprono che conosce il linguaggio degli uccelli, viene sì abbandonato in alto mare, ma, dopo essersi salvato da questa conseguenza immediata, vive vicende che lo portano infine, come è giusto, a sposare la principessa e a vivere felice e contento.

Un percorso di questo tipo, insieme a quella faccenda della «intelligenza superiore alla sua età», a me sarebbe andato benissimo, ma mio padre non mi raccontò la fiaba di Afanasjev, bensì quella dei Grimm. E allora, ora mi dico cercando una consolazione, meglio non averlo imparato, il linguaggio degli animali. Sì, perché mi sarebbe accaduto esattamente come al figlio stupido del vecchio conte e al Bobo della fiaba di Calvino mi sarebbe accaduto di diventare papa. Pare che sia inevitabile; dice Calvino che «è una vecchia tradizione europea (...), una leggenda (che serba qualcosa dell'episodio biblico di Giuseppe) attribuita ai papi Silvestro II e Innocenzo III». No, grazie, non è il caso. «Preferirei di no», ridico strenuamente col Bartleby di Melville. Meglio non avere imparato il linguaggio degli animali.



Anche perché Calvino rielaborò la storia dalle Fiabe mantovane raccolte nel 1879 da Isaia Visentini, e ancora cent'anni dopo, nel 1976, sempre a Mantova, in mezzo a Ventisette fiabe raccolte nel Mantovano di Giancorrado Barozzi, è stato possibile avere questa incontrovertibile verità:

«La notte di Sant'Antonio le bestie, per celeste prodigio, acquistano la favella e parlano tra loro; ma nessuno, a scanso di qualche accidente, deve tentare di sorprenderle nei loro segreti colloqui: è un precetto del Santo. Un giovane incredulo e senza scrupoli osò sfidare il tabù rimanendo a vigilare nella stalla, acquattato tra la paglia, attento a non perdere una sillaba. Ed ecco che a mezzanotte, da ogni posta, s'alza un brusio confuso, che non è del ruminar solito dei bovini. All'orecchio del giovane in ascolto entrano ben presto suoni articolati, voci e parole di un dialogo ben chiaro e tremendo:

"Cosa farem a dman?"

"Na cassa da mort."

"E par chi?"

"Par quel ch'a stà in scolton."

La mattina dopo, non c'è che dire, il giovane intruso fu trovato morto di spavento.»

 

Una consolazione sola però è ben poca cosa, e così me ne sono presa un'altra; piuttosto amara, se si vuole, ma utile per sopravvivere. L'ho trovata in un libro di Carlo Emilio Gadda, Il primo libro delle favole, dove c'è una storia (la centoottantesima) dolorosa e bellissima in cui si racconta che tra il passero e gli altri uccelli, la sera, circa il ramo sul quale trascorrere la notte, le cose vanno esattamente così:

 

«Il passero, venuta la sera, appiccò lite a' compagni da eleggere ognuno la su' fronda, e 'l rametto, ove posar potessi.

Un pigolio furibondo, per tanto, fumava fuore dall'olmo: ch'era linguacciuto da mille lingue a dire per mille voci una sol rabbia.

D'un'aperta fenestra dell'ipiscopio com'ebbe udito quel diavolìo, monzignor Basilio Taopapagòpuli, arcivescovo di Laodicea se ne piacque assaissimo: e dacché scriveva l'omelìa, gli venne ancora da scrivere: "inzino a' minimi augellini, con el vanir de' raggi, da sera, e nel discolorare de le spezie universe, e' raùnano a compieta: e rendono a l'Onnipotente grazie di chelli ampetrati benefizi ch'Ei così magnanima mente a lor necessitate ha compartìto, et implorando de le lor flebile boci, contro a la paurosa notte sopravvenenti el Suo celeste riparo, da sotto l'ala richinano 'l capetto, e beati e puri s'addormono".

Ma i glottologi del miscredente ottocento e' sustengono che 'n sua favella, ciò è delli storni e de' passeri, quel così rabbioso e irreverente schiamazzo che fuor d'onni fronda vapora, o tiglio o càrpine od olmo, non è se non:

"di sò, el mi barbazzàgn, fatt bèin in là..."

"ditt con me?"

"proppri con te, la mi fazzòta da cul!..."

"mo fatt in là te, caragna d'un stoppid..."

"t'avèi da vgnir premma, non siamo mica all'opera qui..."

"sto toco de porséo..."

"va a ramengo ti e i to morti!..."

"quel beco de to pare..."

"e po' taja, se no at mak el grogn,... tel dig me,... a te stiand la fazza..."

"in mona a to mare..."

"lévate 'a 'lloco, magnapane a tradimento!..."

"né, Tettì, un fa' o' bruttone..."

"i to morti in cheba..."

"to mare troja..."

"puozze sculà!..."

"'sta suzzimma, 'e tutte 'e suzzimme!"

"piane fforte 'e loffie!..."

"chitarra 'e stronze!..."

"mammete fa int' 'o culo..."


"e soreta fa int' e' rrecchie..."

"a tte te puzza 'u campà..."

"léati, porco, 'e cc'ero prima io..."

"e cc'ero io, invece!... l'è mmaiala!"

"... mandolin 'e mmerda!..."

"... sciu' 'a faccia tua!..."

"chiàveco!..."

"sfacimme!..."

"recchio', te ne metti scuorno o no!"

"è 'ttrasuta donn'Alfunsina!"

"e cc'ero io, maledetta befana, costassù costì l'è la mi casa!..."

"vaffangul' a mammeta!"

"abbozzala, pezzo di merda, o ti faccio fori..."

"levate da' ccoglioni... accidenti a la buhaiòla 'he tt'a messo insieme!..."

"to màae..."

e altre finezze, e maravigliose e dolce istampite del trobàr cortés.»

 

Consolazione amara davvero, non può esserci dubbio, e tuttavia sicuramente preferibile tanto all'ingannevole supposizione di monzignor Taopapagòpuli quanto al rude disvelamento dei miscredenti glottologi ottocenteschi. Meglio non averlo imparato, il linguaggio degli uccelli. Che farsene, infatti, di un linguaggio che altro non dice se non quel che ognuno può sentire dagli umani a un qualunque semaforo, un parcheggio, un supermercato, uno stadio, un ufficio postale o d'anagrafe?

 

Però anche le consolazioni, pur utili in molti frangenti, prese in sé si rivelano essere poi ben poca cosa. Sono solo un ripiego, una pezza, un rimedio posticcio, la scala antincendio nella casa che brucia. Di grande utilità, senza alcun dubbio, e però niente più di qualcosa che al massimo può consentire di sopravvivere e mai invece qualcosa per cui possa valere la pena di vivere.

 

Di quello per cui val la pena di vivere non è forse qui il caso di dire, soprattutto perché sarebbe comunque un parere inevitabilmente personale, non trasferibile, non elevabile a valore assoluto soltanto una deroga mi verrebbe da fare: questa: una cosa per cui val la pena di vivere è il cercare ma dentro di sé e per sé, e quindi si torna daccapo il cercare qualcosa per cui valga la pena di vivere. Sia chiaro: il cercare, ché circa il trovare è molto dimolto diverso il discorso.

E così mi viene da pensare che, se delle consolazioni e delle ragioni per vivere è poco sensato parlare, non resta forse nient'altro che il dire di quello che sa dare vita e rimettere in vita; il dire, quindi, di qualcosa che, pur non essendo ragione di vita né strumento di bieca sopravvivenza, è molto più vicino a quella che a questa di questa essendo anzi in ogni caso la negazione, lo spazzamento.

Sì, certo, anche questo non può che collocarsi nell'ambito del personale, ma a differenza delle "ragioni di vita", sempre da continuare a cercare, mai conseguibili una volta per sempre con la consistenza di forza e di valore che deriva da verifiche effettuate, da prove provate, da esperienze esperite. E quindi, se non proprio "oggettivabili", senz'altro almeno comunicabili; senza pretesa di scienza ma con respiro di conoscenza.

 

A chiunque, più volte, è successo e succede di ritornare a vivere. È successo e succede anche a me, più e più volte, quali che fossero e siano e qui non ne dirò le cause dell'andarsene, del venire a mancare. E dirò che a ridare la vita non sono le ragioni per cui val la pena di vivere; almeno come elemento immediato, se non altro perché sempre troppo complesse e articolate, sempre troppo ancora da definire ulteriormente, sempre troppo ancora in movimento, sempre ancora da cercare, ancora e ancora, camminando camminando nel cammina cammina. O, forse, chissà...

 

A rimettermi in vita è stato il vento, un amore, la musica, alcune storie e le parole che ci sono dentro: nel vento, in un amore, nella musica, dentro le storie. Ma dell'amore e del vento sarà però forse bene dire altrove, se non altro perché, forse, chissà... E delle storie qui mi limiterò a ricordarne soltanto qualcuna: quelle di Herman Melville, di João Guimarães Rosa, di William Faulkner, di Lev Tolstoj, di Elsa Morante, Chiamalo sonno di Henry Roth, Casa d'altri di Silvio D'Arzo, Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, L'isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, Il sogno del pongo...

Vorrei invece, piuttosto, dire qualcosa della musica. Ma ha senso parlare della musica? Non ha forse più senso suonare e cantare e ascoltare? È sicuramente così, allora mi limiterò a dire che capisco bene quello che succede in due bellissime storie.



In un racconto di Cechov, Il violino di Rotsild, Jakov, angosciato dalle perdite, «poneva accanto a sé, sul letto, il violino e, quando ogni sorta di assurdità gli passavano per il capo, toccava le corde, il violino nella tenebra emetteva un suono ed egli si sentiva sollevato». E più avanti, quando l'assistente sanitario, il fel'dser Maksim Nikolaic «gli ordinò di applicarsi sulla testa delle compresse fredde, gli diede delle polverine, e dall'espressione del suo viso e dal tono Jakov capì che l'affare era brutto e che ormai nessuna polverina avrebbe giovato», non ne risultò nemmeno troppo disperato; anzi, «andando a casa rifletté che dalla morte non si trae altro che vantaggio: non c'è più bisogno né di mangiare, né di bere, né di pagare le imposte, né di offendere la gente, e poiché un uomo giace nella tomba non un anno, ma centinaia e migliaia di anni, se si fanno i conti il vantaggio risulta enorme». E così Jakov «non rimpiangeva di morire, ma non appena, arrivato a casa, vide il violino, gli si strinse il cuore e sentì rimpianto».

 

Nel romanzo di Torgny Lindgren, Il sentiero del serpente sulla roccia, Jani, rivolgendosi a Dio, racconta di non avere mai conosciuto suo padre perché ancor prima che lui nascesse «te lo sei portato all'ospedale di Pitholmen, dove s'è spento piano piano ed è morto. Al suo posto [corsivo mio] avevamo quell'armonio che il padrino della mamma, Rönn, il falegname di Tjöln, le aveva costruito e che con la sua frivolezza, soprattutto se si mettevano i registri Principale e Flauto, ci procurava ogni tanto qualche crosta di pane».

E in tutto il romanzo la musica è costantemente presente e assume anche una funzione specificamente liberatoria e gioiosamente vitale, e questo di per sé, in assoluto, per così dire, ma anche come contrapposizione al gretto, al violento, al mercantile.

Certo, la musica è "inutile", non "produce", non "rende" nulla, come ben evidenzia lo sconfortante incontro tra Jani e la madre di colei che diventerà sua moglie:

 

«Mia mamma ha suonato per tutta la sua vita, dissi io.

Io non la conosco, disse la madre di Johanna. Così non ne so niente.

Per molti la musica è come una fonte di gioia, dissi io. La mamma s'è sempre consolata con la musica.

E come le è andata? disse la madre di Johanna. Come se l'è cavata nella vita?

Allora non dissi più niente, avremmo potuto discutere chissà fino a quando sulla musica, i cani litigavano per il pesce, lei non domandò niente su Johanna e non domandò nemmeno chi ero o da dove venivo, e non vide che il mio braccio sinistro pendeva come il pendolo di un orologio, e avevo fame ma lei non tirò fuori nemmeno una crosta di pane.»

 

La musica non è "utile", non "produce", non "rende" nulla, ed è forse proprio nella sua gratuità, nella sua primordialità, che risiede la sua forza, il suo potere magico. Però esistono autentici per niente metaforici imperi fondati sulla musica; imperi economici, ben forniti di un potere che non ha nulla di magico; e qui non è di questo che volevo parlare, qui volevo parlare soltanto della "fonte di gioia", di quella cosa che permette alla madre di Jani di dire di non avere «mai bisogno di accendere delle candele di sera (...) perché abbiamo la musica».

 

A. Naumann, Vögel Mitteleuropas, Gera, 1900

 

Allora, forse, sarà meglio cautelarsi molto attingendo soltanto là dove la "fonte di gioia" è limpida, priva dei fastidiosi fruscii delle banconote; e non solo, ma anche robustamente rinforzata da un altro elemento, precluso agli umani e anch'esso almeno altrettanto fonte di gioia: il volo. Certo, precluso agli umani, perché, come diceva Umberto Saba in un epigramma dedicato a un aviatore,

 

«Vai con macchina in alto, sì, ma ignoto

resta il gaudio del volo.

Non può chi va in barchetta dire: Io nuoto.»

 

Si dovrà allora attingere agli uccelli; ai quali, non a caso, Giacomo Leopardi dedicò uno straordinario Elogio, nel quale come anche in diverse pagine dello Zibaldone ne evidenziava il prezioso assommare in sé e il canto e il volo, liberi e gratuiti, espressioni di letizia e piacere, e di piacere e letizia sorgenti rigogliose.

Vorrei però qui, per un momento almeno, fermarmi su un problema; pormi e porre almeno una domanda. Domanda e problema per i quali mi servirò di George Orwell, dal momento che una cinquantina d'anni fa se li era posti e poi aveva fornito una risposta di squisita saggezza. Scriveva infatti Orwell in Elogio del rospo, un breve testo del 1946 pubblicato in italiano nel volume di saggi Tra sdegno e passione, a cura di Enzo Giachino (Rizzoli 1977), e successivamente in Nel ventre della balena e altri saggi, curato da Silvio Perrella per Bompiani nel 1996:

 

«È un peccato rallegrarsi per la primavera e gli altri mutamenti stagionali? O, per essere più precisi, è politicamente riprovevole, mentre tutti soffriamo, o ad ogni modo dovremmo soffrire, sotto il giogo del sistema capitalista, far presente che la vita sovente merita meglio d'essere vissuta per il canto di un merlo, le foglie gialle d'un olmo in ottobre, o qualche altro fenomeno naturale, che non costa un soldo e non possiede ciò che i direttori dei giornali di sinistra definirebbero una visuale classista? Molte persone, senza dubbio, la pensano così. (...) La gente, così pensano alcuni,



dovrebbe essere scontenta e il nostro compito è di moltiplicare i nostri bisogni e non semplicemente aumentare il godimento delle cose che si hanno. L'altra idea è che questa è un'era di macchine e che non amare le macchine, o anche solo cercare di limitarne il dominio, denota una tendenza retrograda, reazionaria ed anche leggermente ridicola. (...) È vero che dovremmo essere scontenti e non tentare di trarre il massimo vantaggio possibile da una situazione deplorevole. Eppure, se distruggiamo ogni piacere nel corso della vita, quale specie di futuro ci prepareremo? Se non si sa godere per il ritorno della primavera, come faremo ad essere felici in un'utopia che ci risparmi il lavoro? In che modo sfrutteremo il tempo libero, che le macchine ci largiranno? Io ho sempre sospettato che, se i nostri problemi economici e politici verranno effettivamente risolti, la vita diventerà più semplice invece che più complicata e che il tipo di piacere che si deriva nello scovare una primula precoce, sarà ben maggiore del tipo di piacere che si deriva mangiando un cono sull'aria di un Wurlitzer. Credo che, conservando il proprio amore infantile per alberi, pesci, farfalle e per tornare al punto di partenza rospi, ci si prepara meglio un pacifico e onesto futuro, mentre invece sostenendo che nulla deve essere ammirato, tranne l'acciaio e il cemento armato, si rende più probabile una situazione in cui gli esseri umani non avranno altro sfogo per le loro superflue energie se non l'odio e l'adorazione di un qualche duce.»

 

Anche Majakovskij, in una poesia del 1923, aveva posto il problema analogo e analogamente posto (Cfr. V.Majakovskij, Opere, vol. I, a cura di Ignazio Ambrogio, Roma, Editori Riuniti 1972):

 

«Ché tutte le altre questioni

più o meno son chiare.

E riguardo al grano

 

e riguardo alla pace.

Ma questa

questione cardinale

 

riguardo alla primavera

bisogna,

costi quel che costi,

risolverla adesso.»

 

Probabilmente tutto questo io lo metto qui con un intento che è anche di giustificazione, ma, pur accettando serenamente la possibile presenza di questo aspetto, vorrei evidenziare la dimensione rivendicativa che è in ogni caso sottesa. Una rivendicazione che è principalmente una sorta di accorata dichiarazione di necessità d'interezza: interezza per quanto riguarda una singola specifica esistenza che è fatta di corpo, mente, fantasia, ragione, emozioni, sensazioni, sentimenti, compresenti; tutto quanto, tutt'insieme, senza che nessuno di questi "particolari" ne possa accantonare qualche altro ; e interezza anche per quanto riguarda la collocazione di una singola specifica esistenza nel vasto mondo, che non è percorso soltanto da persone ma anche da animali, vegetali, e tutti tutti impregnati di natura e cultura, di biologia e storia, per di più anche queste non individuabili separatamente perché assolutamente intrecciate e fuse.

Questo dovrebbe anche evidenziare un'altra rivendicazione: quella relativa alla necessità di non occuparsi di fiori e di farfalle per delusione storica, per adeguamento a una moda o per sopravvenute paure. E non certo perché non esistano delusioni storiche, o perché l'ecologia non sia oggi anche una moda, o perché non ci sia da temere per la vita di ognuno e del pianeta; non per questo, bensì per il fatto che queste sole ragioni non possono portare ad alcun cambiamento autentico, e possono consentire tutt'al più di sopravvivere, non certo di vivere davvero.

 

Mi fermo qui, perché è perlomeno disonesto trovare una consolazione nel fatto di non essere diventato papa e poi pontificare discettando del "sopravvivere" e del "vivere davvero". Mi fermo qui e ritorno, con tutta l'inevitabile invidia ma con altrettanto incantamento, agli uccelli e al loro volare e cantare.

Però c'è un problema: uccelli?

Tra le tante cose preziose che si possono imparare da Don Milani e dai ragazzi della Scuola di Barbiana c'è anche quanto sia vuoto, e scorretto, e classisticamente sintomatico, parlare genericamente di "alberi". Ognuno di essi ha infatti una precisa identità, bisogni, funzioni, sensibilità peculiari; nonché un ben preciso nome. E il discorso non può non valere anche per gli uccelli, e allora qui non si dirà vagamente di uccelli bensì di cardellini.


 

 

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