Scriversi, per non morire dentro

rubrica Leggere gli anni verdi

école febbraio 1994

                                                                                                           

     Cara Galit, cara Mervet,

per quanti sforzi faccia per rendersi odiosa, questa grande città dell'Italia settentrionale dalla quale scrivo mi riserva un gran numero - incluso quello di non chiamarmi Na'im - di privilegi. Ma questi non li elencherò, e dirò solo che annovero tra essi il fatto che sto scrivendo nella quiete della mia casa. Di là il mio bambino dorme: vicino al letto aspettano serenamente il suo risveglio una bambola, una palla, un libro di animali, pezzi per costruzioni, un cavallo a dondolo. Potrei, in qualunque momento, e senza dovere nasconderlo a nessuno, chiamare al telefono o andare a trovare anche un amico come Davìd o come Alì. Da fuori arrivano solo i rumori del traffico - di certo non gradevoli, seppure tollerabili - e in ogni caso ascolto un concerto di Bach. Scrivo con accanto la gatta addormentata.

      Scrivo a voi, Galit e Mervet, perché, a differenza di Na'im - ragazzetto arabo che abita in un bellissimo romanzo di Abraham B.Yehoshua (L'amante, Einaudi 1990) - io posso dire tranquillamente di essere felice di avervi conosciute, e  proprio per il fatto che non vi dimenticherò. Invece Na'im, a proposito di Dafi, ragazzetta israeliana di cui si è innamorato, si trova costretto a dire: «Mi dispiace d'averla vista, perché non la dimenticherò».

     Scrivo a voi, Galit e Mervet, senza avere la minima idea di cosa sia successo di voi dopo il 6 aprile 1991. Fino ad allora tu, Galit, abitavi a Gerusalemme con i tuoi genitori e i tuoi quattro fratelli, con la paura costante delle pietre e degli attentati palestinesi, dei missili, delle armi chimiche. E tu Mervet, abitavi nel campo profughi di Deheisha - che conosco per averne letto in quell'importantissimo libro di David Grossman che è Il vento giallo (Mondadori 1988). Abitavi là con i tuoi genitori e i tuoi cinque fratelli, con la paura costante dei soldati israeliani, delle pallottole, dei gas lacrimogeni, della prigione.

     Vivevate là, a Gerusalemme e Deheisha, e fino all'agosto 1988, quando avevate dodici anni, non sapevate nulla l'una dell'altra. Entrambe sapevate però molto bene una cosa: sapevate di avere dei nemici: tu, Galit, sapevi che ne avevi a Deheisha, e tu Mervet, sapevi di averne a Gerusalemme. Gerusalemmee-Deheisha: quindici chilometri di distanza nella pseudorealtà del misurare, quindicimila milioni di abissi nella realtà del sentire.

    Poi, nel 1988, accadde che Litsa Boudalika, una regista di documentari (belga, di origine greca, che ha studiato in Italia e a Parigi - <<nostra patria è il mondo intero» -, dice una canzone anarchica), durante un viaggio di lavoro in Israele, scoprendovi per caso - e separatamente, è ovvio - vi propose di avviare una corrispondenza epistolare tra voi, nemiche. Tu, Galit, cominciasti scrivendo: «Ho dodici anni. Sono israeliana. Provo una strana sensazione al pensiero di scrivere a una palestinese. Come se fosse un sogno, un bel sogno.» E tu, Mervet, scrivevi: «Non so come rivolgermi a te. Non so se vuoi essere mia amica. So molto poco di te e della tua vita, ma provo già amicizia per te.»

     Avete cominciato così, trovando subito, al primo frugare dentro voi stesse, lo stupore e il timore, il desiderio e la paura, la speranza e la vacillante fiducia.

    Vi siete scambiate numerose lettere, ed esse erano di volta in volta - giacché la Storia, inevitabilmente, ha interferito sempre nelle vostre storie - erano di volta in volta pervase di tenerezza o durissime, aperte alla scoperta reciproca o avviticchiate sulle proprie ragioni e i torti altrui. Ma erano sempre, mi preme dirlo, lettere assolutamente oneste: ed è proprio per questo che non vi siete risparmiate nemmeno i colpi duri.

    Poi, finalmente, il 6 aprile del 1991, vi siete incontrate a Gerusalemme. Ed è su questo vostro incontro che si chiude il bel libro curato da Litsa Boudalika e pubblicato ora, nella traduzione italiana di Paola Novarese, dalle Edizioni E.Elle nella collana «Ex libris»: Galit Fink e Mervet Akram Sha'ban, Se vuoi essere mia amica, libro che raccoglie le vostre lettere ed è introdotto da un utilissimo profilo storico di Ariel Cohen. Su quell'incontro si chiude il libro, e di voi qui non si sa più nulla. E però non importa, direi. Quel che importa davvero è che avete dimostrato che parlarsi è possibile e che, per quanto numerose e grandi possano essere le differenze, è possibile uscire dall'astrazione del «nemico» e trovarsi di fronte persone vere. E questa, ben più delle firme in calce a documenti ufficiali, è l'unica strada che porti davvero in qualche posto, e prima di tutto là dove non si muore dentro. Beninteso: in qualche posto connotato dallo scambio autentico e dall' arricchimento reciproco e non già dalla dialettica cieca di sottomissione e dominio.

     Cara Galit, cara Mervet, siete incappate tra l'altro nella scoperta di discendere entrambe dallo stesso profeta, Ibrahim, Abraham, insomma colui che qui da noi viene chiamato Abramo. E importante questo, ma io vi suggerirei di riflettere sul fatto di avere in comune anche un altro progenitore, o fratello, o che altro non so: Giochà, Guhà, Djoha, Djukhah, insomma colui che qui da noi viene chiamato Giufà, cioè colui che - concretamente, come voi - si ribella alle convenzioni sociali.