| Confessione école maggio 2000 | 
                                                                                                           

| Arrivato
              a questo punto, non avendo più niente da perdere, potrei anche
              dire di averlo fatto in tutte le posizioni, in ogni luogo, a
              qualunque ora del giorno e della notte. "Solo o con
              altri?", mi chiedevano sempre. Con altri, reverendo, con
              altri, sempre e solo con altri, dico con sicurezza. Sì, sempre
              con altri, ripeto convinto. Anche quando qualche osservatore
              superficiale avrebbe potuto credere che fossi solo, lo facevo e lo
              faccio con altri.  Con
              donne, con ragazze, con bambine, con vecchie. Con uomini, e
              ragazzi, e bambini, e vecchi. Con morti. Con animali. Con
              fantasmi. Con vittime. Con carnefici. Con uno, con due, con sette,
              con sedici, con duecentotrenta, con mille e una, con sei milioni.
              Con ogni tipo di lingua. A prescindere dalle dimensioni. Con
              partners di una vita, quintessenza d'amore; con lampi di
              passaggio, con ombre di passaggio, trastulli d'un istante. Persino
              con i luoghi, l'ho Certo,
              il piacere è diverso ogni volta, ma l'ho sempre chiamato e sempre
              lo chiamo piacere. Che si rida o si pianga, ci si rilassi oppure
              ci si tenda, si scenda negli abissi o si voli e trasvoli per elisi
              ed empirei: perché aziona sempre un forte sentire.  Non
              voglio andare oltre, per pudore. Inoltre non pretendo certo di
              essere esemplare, ben sapendo quanto vizioso sia e, se non altro a
              causa della cronologia, passando io per colto o acculturato. Però
              vedo mio figlio, vedo i miei alunni, puri e cronologicamente ai
              primordi, e vedo che anche loro lo fanno così. Con un forte
              sentire. Lo diceva anche Kafka: "Non si farà mai capire -
              per esempio - ad un ragazzo il quale alla sera è immerso nella
              lettura di una bella storia avvincente, non si riuscirà mai a
              fargli capire con una dimostrazione che si riferisca a lui solo
              che deve interrompere la lettura e andare a letto". E
              non solo. Lasciando appunto perdere me, se guardo i puri e
              primordiali vedo che quelle immersioni sono totali, senza confini
              tra il cosiddetto corpo e la cosiddetta mente. Lo fanno coricati,
              seduti, in piedi, stravaccati, tenendosi per mano, ridendo forte,
              serissimi, compunti, sereni, trasognati, deglutendo, tirando su
              col naso; e quando racconto o leggo per loro si aggrappano alla
              voce e narrano del loro cammina cammina con i bagliori degli
              occhi, il pallore, il trasalire, il trattenere il respiro, i
              sospiri. Loro, i puri e primordiali, fanno questo; diversi adulti
              che mi ascoltano in scuole o biblioteche mi chiedono invece dove
              ho studiato recitazione. Quel che penso non importa; quel che
              rispondo loro sono parole di Martin Buber, da I racconti dei
              chassidim: "Mio nonno era storpio. Una volta gli chiesero
              di raccontare una storia del suo maestro. Allora raccontò come il
              santo Baal-shem solesse saltellare e danzare mentre pregava. Mio
              nonno si alzò e raccontò, e il racconto Il
              fatto è che sì, una storia va eseguita, avendo o no la partitura
              in mano. Però non c'è bisogno di avere una voce affascinante
              come quella di Stevenson, né di essere Elisabeth Schwarzkopf o
              Dietrich Fischer-Dieskau (o Carmelo Bene); c'è bisogno soltanto
              di sapere che compenetrarsi dà più forza e più vita, più
              piacere. Il quale diverrebbe un ronzio soporifero qualora non
              coesistessero carezze lievi e carezze vigorose, il donare e il
              ricevere, lo sfiorare e il premere, l'aprirsi e l'aprire, il
              sussurro e il canto.  C'è
              altro, ancora. Altro che può vedere chiunque, nei puri e
              primordiali, nel loro divenire. Prima di pervenire alla capacità
              di apparentemente avere in moto solo gli occhi, devono pronunciare
              ad alta voce le parole conquistate; a mezza voce, poi, e anche
              soltanto sul filo ondeggiante delle labbra. È lo stesso percorso
              raccontato in tre libri bellissimi: Nella vigna del testo
              di Ivan Illich (Cortina 1994), Storia della lettura nel mondo
              occidentale, a cura di Guglielmo Cavallo e Roger Chartier (Laterza
              1995), Una storia della lettura, di Alberto Manguel (Mondadori
              1997): dalla lettura ad alta voce dei Greci alla ruminatio
              monastica alla moderna lettura silenziosa (ed è famoso lo stupore
              di Agostino alla vista del vescovo di Milano, Ambrogio, i cui
              occhi "correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il
              concetto, mentre la voce e la lingua riposavano"). I monaci
              "mangiavano" il testo, per fare assimilare al proprio
              corpo il corpo della scrittura. E, per esempio, nella società
              ebraica medievale l'apprendimento della lettura era accompagnato
              da un rituale preciso. Nella festa di Shavuot, che ricorda il
              giorno in cui Mosè ricevette la Torah dalle mani di Dio, il
              bambino veniva avvoltoin uno scialle da preghiera e condotto al
              maestro che gli mostrava una lavagna su cui erano scritti
              l'alfabeto ebraico, un brano delle Scritture e la frase
              "Possa la Torah essere la tua occupazione". Il maestro
              leggeva ad alta voce e il bambino ripeteva. Poi la lavagna veniva
              spalmata di miele e il bambino lo leccava, affinché il suo corpo
              assimilasse le parole sacre. Si usava anche scrivere versetti
              della Bibbia su uova sode e su dolci al miele, che il bambino
              mangiava. Qualcosa di più, dunque, di quel che diceva Italo
              Calvino nell'introduzione a Il sentiero dei nidi di ragno a
              proposito del fatto che "In gioventù ogni libro nuovo che si
              legge è come un nuovo occhio che si apre e modifica la vista
              degli altri occhi o libri-occhi che si avevano prima". È
              vero, non solo occhio però, come attestano i puri e primordiali,
              per i quali è tutto il cosiddetto corpo a essere coinvolto. In
              una poesia Valerio Magrelli dice: "Guarda questa bambina /
              che sta imparando a leggere: / tende le labbra, si concentra, /
              tira su una parola dopo l'altra, / pesca, e la voce fa da canna, /
              fila, si flette, strappa / guizzanti queste lettere / ora alte
              nell'aria / luccicanti / al sole della pronuncia". Bisognerebbe,
              ogni tanto, rivedere l'elenco dei bisogni primari, e stare
              piuttosto attenti a cosa può intrecciarsi con il sole, con
              l'aria, con il cibo. Ma questa è una confessione, e quindi non
              posso certo permettermi di sentenziare. E così mi limiterò a
              ruminare parole che Paul Auster ha messo in un libro che è una
              meraviglia, L'invenzione della solitudine (Anabasi 1993; Einaudi
              1997): "Il bisogno di storie per un bambino non è meno
              vitale del bisogno di cibo, e si manifesta con lo stesso
              meccanismo della fame. Raccontami una storia, dice il bambino.
              Raccontami una storia. Ti prego, papà, raccontami una storia.
              Allora il padre si siede e racconta una storia a suo figlio. O gli
              si sdraia accanto nell'oscurità e comincia a parlare, come se la
              sua voce fosse la sola cosa rimasta al mondo, raccontando una
              storia a suo figlio nell'oscurità. (...) E anche quando il
              bambino chiude gli occhi e si addormenta, la voce di suo padre non
              cessa di parlare nell'oscurità". Fallo, fatelo, è bellissimo. |