Da Leggere gli anni verdi: racconti di lettura sull'infanzia e l'adolescenza

ed. e/o Roma 1992

                                                                                                           

 

Dentro un bosco di storie

****************

 - Siete buono - disse la signora Arnoux.

- Perché?

- Perché amate i bambini.

- Non tutti!

(Gustave Flaubert, L'educazione sentimentale)

 

bambini che osservano con stupore le stelle,

è lo scopo e la conclusione.           

Non essendo che uomini, camminavamo tra gli alberi.

(Dylan Thomas, Poesie inedite)

 

l'infanzia che m'ha dato

questo caro sgomento mio d'esistere.

(Giovanni Giudici, Prove del teatro)

 

 

****************  

So bene di meritare il biasimo incondizionato di Monsignor Giovanni Della Casa, ma non ha senso fingere: a tante prescrizioni del suo Galateo proprio non mi riesce d'attenermi; anzi, d'alcune di queste indicazioni disattese ho fatto più o meno una bandiera, un agire di cui quasi menare vanto. E così, per esempio, sono uno che, "massimamente in favellando", anziché starsene lì tutto compìto, "straluna gli occhi e l'un ciglio lieva a mezzo la fronte e l'altro china fino al mento", e sono proprio tra quelli che "muovono sì fattamente le mani come se essi ti volessero cacciare le mosche"1.

Dolersene? E perché? Il fatto è che le chine sono fatte così: un primo scivolone è soltanto l'avvio d'una liscia caduta senza fine. E allora dirò pure che ho un'altra biasimevole abitudine: quando, camminando, mi accada d'incontrare qualcuno o qualche cosa che mi piaccia o m'interessi molto, osservo intensamente e persino mi volto. Certo, di questo agire ci sono spiegazioni, attenuanti, ma questo chi mi vede non lo sa, e chissà cosa pensa, anche perché il sentire dominante mi sembra caratterizzato più che altro da diffidenza e sospetto.

Per esempio, chi mi vede voltarmi a guardare i bambini nel migliore dei casi mi riterrà un maleducato ficcanaso, ma ancor più facilmente penserà che io sia un pedofilo in agguato; non penserà certo che sono un operatore pedagogico a tempo pieno in servizio permanente effettivo. Sì, io mi volto a guardare i bambini. Nonostante abbia a che fare ogni giorno con loro, per capirli davvero mi sembra necessario anche guardarli e ascoltarli per le strade, sugli autobus, negli angusti e polverosi spazi attrezzati a "verde"; mi sembra necessario ascoltarne le tante domande rivolte alle madri e vederne lo scalpitare alla risposta, ansiosi di passare ad un'altra domanda; e ascoltarne il linguaggio; e osservarne i gesti e i bagliori degli occhi. Perché anch'io, come il professor Carlo Stresa2, penso che non ci sia molto "di più bello degli occhi dei bambini quando ridono"3; e questo anche per il fatto che si tratta ogni volta della replica di un antico evento prodigioso: infatti,"quando il primo bambino rise per la prima volta, il suo riso si spezzò in mille frantumi che si sparsero intorno saltellando, e questa fu l'origine delle fate".4

Ma non è tutto qui. A Carlo Stresa io mi sento ancora più vicino quando lo vedo guardare la piazza, la torre, il cavallo che, "solo e quieto nel primo pomeriggio, faceva anche un poco pietà". E guardare le tortore e sentire il tranquillo desiderio di carezzarne una; sentire anche un peso, nato forse dal compiere proprio quel giorno ventinove anni e rendersi conto che "da ventiquattro a venticinque c'è solo un anno di differenza, come fra venticinque e ventisei; ma fra ventinove e trenta c'è un lustro, un secolo, la vita”. E non solo: "Fra poco, alle due, sarebbe andato al Ginnasio, in Via Maccari, a conoscere tutti i suoi colleghi: ed anche questo gli pesava; gli pesava e non ne sapeva bene la ragione nemmeno lui. O forse, ancora un po' vaga, una ragione poteva esserci in fondo: il timore di scorgere in loro se stesso fra vent'anni. Carlo Stresa che a cinquant'anni fa un'antologia col “Cinque Maggio” “Odio l'allor” “In Morte di Napoleone Eugenio”, e comincia la prefazione così: "Nell'affidare alle stampe questo volume mi sento in dovere..": o che parla per mezz'ora sull'etimologia della parola "lapsus". C’è miseria più grande Signore? (...) Ecco, deciso: il giorno che non si fosse più voltato a guardare un bambino per la strada sarebbe uscita la sua prima antologia"5.

Ed ora eccomi qui, alle prese con una specie di antologia. Ma io non ho l'età temuta da Stresa, e non ho smesso di voltarmi a guardare i bambini, e questa “antologia” non è mia; e, soprattutto, questa “antologia" non contiene nulla di miserabile. E dirò anche che il fatto di essere, alle prese con questa “antologia" ha pure incrementato il mio voltarmi; e non solo sugli autobus o lungo le strade, ma anche nei libri, dentro racconti e romanzi. Per deformazione professionale, probabilmente, ma anche perché in questo modo succede di riuscire a vedere pezzi importanti del vasto mondo; importanti e "istruttivi", e spesso anche solo bellissimi per tragici oppure gioiosi che siano.

Voltarsi a guardare - nei libri, intendo - è vantaggioso per almeno due ragioni. La prima è che Lloyd de Mause ha torto quando sostiene che non ci si può affidare a Mark Twain per conoscere l'infanzia e la società6 - e basterebbe aprire anche a caso Tom Sawyer o Huck Finn per verificare l'infondatezza di quella affermazione. La seconda ragione è che proprio con questi due libri - soprattutto il secondo, e per limitarsi a Mark Twain, ma il discorso vale per numerosissimi altri libri - si può fare l'esperienza di leggere una storia ricavandone se non altro - e soprattutto - un grande, grandissimo piacere: il che non è certo secondario, né sul piano "utilitaristico" né su un piano culturalmente più sofisticato: diceva infatti Auden che “il piacere è ben lungi dall'essere un criterio critico infallibile: è però il meno ingannevole”7.           '

A giustificare il fatto di voltarsi e soffermarsi sarebbe sufficiente questa seconda ragione" ma anche la "prima esiste, ed è quasi un po' come se si imponesse. Un solo esempio: la poesia di Montale Un mese tra i bambini non dice forse (se non addirittura di più) almeno quanto diversi studi psicopedagogici? “I bambini sono teneri / e feroci. Non sanno / la differenza che c'è / tra un corpo e la sua cenere. / I bambini non amano / la natura ma la prendono" 8. 

Chi volesse voltarsi e soffermarsi anche soltanto sulle narrazioni (come imponeva la regola che agli "antologizzatori" qui convocati è stato chiesto di rispettare) che rappresentano in qualche modo gli "anni verdi" - ampiamente o soltanto di sfuggita - avrebbe probabilmente bisogno di vite supplementari. Allora io, trovandomi qualche alibi più meno adeguato per giustificare la scelta, qui dirò qualcosa soltanto su alcune rappresentazioni d’infanzia, sui bambini, sui "fanciulli", per usare quella che Luigi Meneghello dice essere una "parola, a Malo, di irresistibile effetto comico" 9.

Un primo alibi potrebbe essere quello fornito dal professor Stresa, e mi sembra abbastanza consistente; il secondo è invece più fragile. L'ho trovato in Melville, là dove si dice che "la mia esperienza, passata per un seguito - peggio che uno stillicidio - di trentacinque garzoni, mi dimostra che l'adolescenza non è che uno stadio naturale della furfanteria"10. Bello, come alibi, ma proprio debole perché due pagine dopo non si parla più soltanto dell'adolescenza e il dialogo procede così: "Crescendo superano le loro storture? Da ragazzi cattivi spuntano uomini buoni? Signore, il bambino è il padre dell'uomo:,quindi, dato che tutti i ragazzi sono furfanti, tali son gli uomini"11 E ancora: ""Adesso, signore, prenda un ragazzino, un giovane infante maschile, meglio un fanciullo, maschio insomma - che cosa osserva, riverito signore, in primo luogo?". "Un farabutto, signore! presente e potenziale, un farabutto!"12. Il funzionario dell'Ufficio di Collocamento Filosofico, l' <<uomo di fiducia>>, astuto e brillante gabbatore, a proposito di ragazzi - adolescenti o fanciulli che siano - si trova in difficoltà più che in altre imprese, e nel tentativo di convincere la vittima di turno ricorre in ogni caso ad una valutazione non certo positiva dell’età giovanile; suggerendo di non punire preventivamente l'adulto per il suo inevitabile trascorso stato di ragazzo al suo oppositore, che comunque replica così: "La farfalla è il bruco con un vestito sfarzoso, spogliata di quello, rimane il lungo fuso d’impostore del suo corpo, un verme come agli inizi"13.

Forse cercare in Melville l'alibi per parlare di bambini è un po' troppo funambolico - anche perché, per esempio, in Israel Potter, usa poche inequivocabili parole: "L'immaginazione dipingerebbe facilmente l'infanzia di Israel nei campi. Ma tralasciamo questo meno che immaturo periodo"14 -, però mi consente, appena di passaggio, di mettere qui un titolo che con gli "anni verdi" ha molto a che fare: Moby Dick. Perché Moby Dick, Don Chisciotte, I viaggi di Gulliver, Robinson Crusoe, sono sicuramente tra i libri più complessi di ogni tempo, ma si tratta di narrazioni così prodigiose da essere riuscite a diventare anche letture giovanili e, con inevitabili riduzioni, anche letture per i bambini.

Di Melville voglio però riportare qui un frammento da un racconto: "Colpiva la sua attenzione una negra addormentata, che attraverso l'intrico di certe manovre s'intravedeva, distesa, le giovani membra negligentemente abbandonate, sottovento alla murata come una daina all'ombra di una rupe selvosa. Si divincolava sul capezzolo del suo seno il suo cerbiatto vispo e nudo, col corpicino lucido semi sollevato sul ponte, di traverso al corpo della madre: e le due mani come zampette le davano la scalata, la bocca e il naso frugavano inutilmente per giungere al segno, emettendo intanto un fastidioso grugnito che si confondeva al pacato russare della negra. La non comune vigoria del bimbo finì per svegliare la donna, che balzò in piedi, facendo fronte a distanza al capitano. Ma, come se nulla le importasse dell'atteggiamento nel quale era stata colta, essa afferrò gioiosamente il bimbo in un trasporto d'amore materno, e lo coprì di baci. Ecco qui la natura schietta: nient'altro che amore e tenerezza pensò il capitano, compiaciuto"15. In un momento in cui il capitano Amasa Delano è combattuto tra sospetti e rassicurazioni, assistere alla scena del piccolo bambino e della serenità gioiosa della madre, gli acquieta le tensioni e lo predispone a una rinnovata fiducia.

Un effetto analogo, ma, per così dire, oggettivo – sul lettore e non sul personaggio – si produce in una pagina di Faulkner, dove c’è un bambino “che aveva le palpebre socchiuse, e le palle degli occhi gli rotolavano all’indietro, nell’orbita, così che soltanto il bianco era visibile, color latte scremato”16. Ed è un po’ come se quelle piccole fessure bianche rischiarassero, seppure per poco, tutto il cupo e il violento degli eventi circostanti.

Tanto in Melville quanto in Faulkner – che in tutte le sue storie ha raccontato di numerosi bambini -, le rappresentazioni dell’infanzia sono articolate; alle loro spalle c’è evidentemente una concezione dell’infanzia piuttosto dinamica, e non un’assolutizzazione spigolosa di questa età dell’uomo elevata a simbolo del luminoso o del torbido.

Un’impostazione per certi versi analoga si trova anche in Hawthorne. Nel racconto La bambina di neve: miracolo infantile17 si narra di due bambini, Violetta e Papavero, che, giocando sulla neve, decidono di costruire un pupazzo: “Facciamo un fantoccio con la neve: che rappresenti una bambina, e sarà la nostra sorella e correrà per il giardino e giocherà tutto l’inverno con noi (…). E immediatamente i bambini si accinsero alla grande impresa di fare un fantoccio di neve che corresse per il giardino”18. La neve; le mani dei bambini; l’entusiasmo; i fiati; i riflessi di una nuvola rosa che illumina le guance, quello delle nuvole dorate che si posa sui capelli e non se ne va più; folate del vento di ponente che danno vita a vortici di bianco; i baci dei bambini che colorano le labbra: la bambina di neve nasce, si anima, e la madre di Violetta e Papavero, chiamata dalle voci gioiose dei figli che cosa credete che vedesse? Violetta e Papavero, naturalmente, i suoi due piccini diletti. Ah, ma chi o che cosa vide oltre a loro? Ebbene, se mi credete, vi era la figuretta esile di una bambina, tutta vestita di bianco, con le guance rosee e i riccioli color d’oro che giocava per il giardino coi due bimbi”19. La madre, stupita e confusa, chiede ai figli chi sia quella bambina e, alle loro risposte, non riesce a opporre che un incremento di stupore e incredulità, confusione e disagio. “Mentre la mamma era ancora esitante su quel che dovesse pensare e dovesse fare, il cancello d’ingresso del giardino si spalancò e il padre di Violetta e Papavero entrò (…). Scorse subito la piccola estranea candida che correva qua e là per il giardino come una danzante ghirlanda di neve (…) – Chi è mai quella bambina? – s’informò quell’uomo di buon senso”20. E alle risposte eccitate dei figli e poco connesse della moglie, reagisce definendo il tutto – seppur benevolmente – come sciocchezze e preoccupandosi di portare dentro, al riparo dal freddo, la bambina. “Mentre il buon signor Lindsey la conduceva su per i gradini della soglia, Violetta e Papavero, con gli occhi pieni di lacrime che si congelavano prima di scender giù per le guance, lo guardarono in viso e di nuovo supplicarono il padre di non portare in casa la loro bambina di neve”21. Ma, come tutti ben sanno, i bambini non hanno potere, e così la bambina di neve “avvilita, avvilita, sempre più avvilita”, fu portata dentro e “l’uomo di buon senso mise la bambina di neve sul tappeto proprio dinanzi alla stufa che sibilava e fumava”22. A questo punto il padre si allontanò per andare a rintracciare i genitori della bambina e la madre per procurare calze scialle coperte e latte caldo, ma furono subito richiamati dalle grida di Violetta e Papavero ‘- Te l’avevamo detto, papà! (…) Hai voluto portarla dentro; e adesso la nostra povera cara, bella sorellina di neve si è liquefatta!”23 Alla fine del racconto Hawthorne dice che da questo si può ricavare che “è dovere degli uomini, e specialmente degli uomini benevoli, considerare bene le cose cui si accingono e, prima di agire per i loro filantropici fini, essere ben sicuri di comprendere la natura e tutte le relazioni di quel che hanno per le mani”24.

E aggiunge, a conclusione: "Ma, infine, non vi è nulla da insegnare ad uomini saggi dello stampo del buon signor Lindsey. Sanno tutto, oh certo! tutto ciò che è stato e tutto ciò che, per ogni possibilità futura, debba essere. E, se qualche fenomeno della natura o della Provvidenza dovesse trascendere il loro modo di pensare, essi non lo ammetterebbero; neanche se accadesse proprio sotto il loro naso. - Moglie – disse il signor Lindsey, dopo un accesso di umore taciturno- guarda quanta neve hanno portato in casa i bambini attaccata alle scarpe! Ha formato una vera pozzanghera, qui davanti alla stufa. Ti prego, di’ a Dora di portare degli stracci e di asciugarla!"25.

Sulla base di questo racconto si potrebbe pensare,  anche attraverso l'insistita definizione del signor Lindsey come uomo "benevolo" “di buon senso", benintenzionato - un gretto, o un tiranno, non l'avrebbe nemmeno vista, e tanto meno ospitata, la bambina di neve - che Hawthorne attribuisca all'infanzia una sorta di potere magico, derivante dall'entusiasmo, dalla fantasia, dalla capacità di appassionarsi, di cui l'età adulta sarebbe  inequivocabilmente e tristemente priva. Ma Hawthorne, altrove, parla anche della "perversità che è propria dei bambini in misura più o meno accentuata, e che in Perla era perlomeno decuplicata"26. Non solo: nel racconto Il dolce fanciullo27, che, come scrive Goffredo Fofi, ha al suo centro "la figura sacrificale di un fanciullo, la cui morte lava il peccato della comunità"28, i bambini sono presentati anche in una luce che non ha nulla di magico, di fantastico o portatore di vita.

Sullo sfondo della feroce guerra fra i puritani e i quaccheri, un colono puritano, mentre ritorna a casa, vede un bambino che piange sotto il patibolo sul quale, proprio perché appartenente alla setta dei quaccheri, è stato ucciso suo padre. L'uomo, pur avversando la setta, rimane molto colpito da quel dolore e ospita il bambino nella propria casa, offrendogli attenzioni e affetto. Questo fatto provoca l'indignazione dei puritani, che guardano il bambino con disgusto, come fosse un essere immondo e demoniaco da cui guardarsi per evitare di essere in qualche modo contaminati. Da questo atteggiamento nessuno è esente: dal pastore, ai vecchi, dalle "beghine rugose" alle "giovinette di mite aspetto". E "il disprezzo e l'astio di cui era oggetto pesavano molto su Ilbrahim, soprattutto quando egli capiva da qualche episodio che i bambini suoi coetanei condividevano l'ostilità dei genitori"29.

Un giorno succede che un ragazzo, un puritano, si ferisce cadendo da un albero nelle vicinanze della casa di Ilbrahim e lì viene soccorso e ospitato. Ilbrahim gli sta vicino, lo aiuta, gli si affeziona. Poi, essendo l'amico ormai in via di guarigione seppure ancora nella necessità di appoggiarsi a un bastone, una volta che Ilbrahim lo vede insieme ad altri ragazzi che giocano si avvicina con serenità e sicurezza, "come se, avendo manifestato il suo affetto a uno di loro, non avesse più da temere d'essere respinto"30. Ma a quel punto "il silenzio calò sulle voci gioiose dei bambini; nel momento stesso, in cui lo riconobbero, e cominciarono allora a confabulare tra loro, mentre Ilbrahim si avvicinava, poi il demone dei loro genitori entrò nel cuore degli scatenati, e lanciando grida acute e feroci si avventarono contro il povero bambino quacchero. In un attimo Ilbrahim si trovò nel mezzo di una turba di piccoli spietati nemici che alzavano bastoni contro di lui e lo colpivano con pietre, mostrando un istinto di distruzione molto più ripugnante della sete di sangue degli adulti. Il piccolo infermo, che nel frattempo si era tenuto in disparte dalla ressa, gridava intanto ad alta voce: "Non aver paura, Ilbrahim vieni qui e prendimi per mano". Dopo aver osservato con calmo sorriso e senza batter ciglio l'infelice amico che si sforzava faticosamente. di raggiungerlo, il piccolo farabutto sollevò poi il suo bastone e colpì Ilbrahim sulla bocca così forte che il sangue gli sgorgò a fiotti. Il poverino, che teneva le mani sulla testa per ripararsi dai colpi, le lasciò allora ricadere subito. Poi i piccoli aguzzini si accanirono sul poveretto caduto a terra, calpestandolo e trascinandolo per i lunghi capelli biondi" 31.

E' evidente che una rappresentazione di questo genere non è dettata da un convincimento di " angelicità" dell'infanzia o di "superiorità morale" di questa sulle altre età dell'uomo. Nasce invece - più semplicemente e più profondamente dall'osservare anche questa età unicamente per quello che è, e quindi nel suo variegato manifestarsi. C'è anche, però, un particolare importante: sia nel caso dei fratelli che danno vita alla bambina di neve sia nel caso dei bambini aguzzini, siamo in presenza di "sentimenti forti", di pulsioni e azioni prive di mediazione, sostanzialmente assolute; e non è un caso, che si tratti di situazioni che hanno a che fare con due cose enormi come la vita e la morte, con il nascere e l'istinto di distruzione.

I bambini amano poco – e ancor meno le praticano - le sfumature. Queste infatti, essendo null'altro che il risultato di una mediazione, nel momento in cui prendono forma si delineano inevitabilmente come qualcosa che non è più riconoscibile nemmeno come frammento del desiderio - o della paura - iniziale. E' un'altra cosa. E può anche essere apprezzata, ma appunto come altra cosa, e soprattutto in un momento diverso, non certo nel tempo in cui il desiderio - e nei bambini il desiderio si connota con la forza e con l'urgenza del bisogno -, quel desiderio iniziale, li abita. Quel che desiderano è "quella cosa lì ", non ciò che la è stata o la diventerà. Racconta Luigi Meneghello: “La mia bambinaia era la Ernestina, ed è tra le prime cose al mondo che ricordo. Era una cosa molto bella. La Ernestina e io in granaio facevamo la rivista dei giocattoli rotti; c'era un bel tramonto, e mi sentivo felice. "Mi sono molto goduto oggi ", dissi alla Ernestina. Lei si felicitò con me per la bella giornata. "Questo giorno qui lo voglio di nuovo domani", dissi. La Ernestina disse sorridendo che anche domani sarebbe stato un bel giorno. M'insospettii e dissi freddamente: "Io voglio che torni questo giorno qui". "Questo giorno qui ormai è passato", disse la Ernestina, "domani ne viene un altro". Mi rivoltai come un forsennato, intravedevo che c'era di mezzo una specie di regola intollerabile, la Ernestina non ne aveva colpa ma la graffiavo urlando: "Voglio che torni questo giorno qui! Questo giorno qui! Voglio che torni!". Niente da fare”32.     

 

Scriveva Walter Binni che Leopardi "sembra aver capito tutto" con anticipi problematici e orientativi rispetto alla stessa "scienza"33. Sì, "sembra" proprio, anche a proposito di quello di cui si parla qui. "Niun pensiero del bambino appena nato ha relazione al futuro, se non considerando come futuro l'istante che dee succedere al presente momento, perocché il presente non è in verità che istantaneo, e fuori di un solo istante, il tempo è sempre e tutto o passato o futuro. Ma considerando il presente e il futuro non esattamente e matematicamente, ma in modo largo, secondo che noi siamo soliti di concepirlo e chiamarlo, si dee dire che il bambino non pensa che al presente. Poco più là mira il fanciullo; ond'è che proporre al fanciullo (per esempio negli studi) uno scopo lontano (come la gloria e i vantaggi ch'egli acquisterà nella maturità della vita o nella vecchiezza, o anche pur nella giovanezza), è assolutamente inutile (...).L'uomo maturo comincia già a compiacersi supremamente e contentarsi della speranza, e pascerne la sua vita. Della quale speranza si nutre parimente, e con essa favella e delira anche il giovane, e il fanciullo altresì; ma non in modo che d'essa si contentino; e che non cerchino di prontamente effettuarla e recarla in opera; e venire al fatto. Il che nasce dall'ardore di quell'età, dall'attività dell'animo unita e cospirante con quella del corpo, dalla freschezza e forza del loro amor proprio, e quindi dall’energia ed efficacia de' loro desideri impazienti d'indugio, e però non sofferenti di proporsi un oggetto ch'ei non possano o ch'ei credano di potere in poco spazio e dentro picciolo termine conseguire"34. E i tentativi adulti di incanalare in direzione della "ragionevolezza" - al di là di ogni esito concreto apparentemente accomodante - portano ad una accentuazione delle distanze, ad una divaricazione, ad una ricezione del "ragionevole" come insensato. Che senso ha, qualcosa che magari ha qualche somiglianza con il desiderato, se non è il desiderato stesso? Che senso ha fermarsi lì? Che senso ha l'accontentarsi, il non andare oltre, il rinunciare all'assoluto - magari risultati di benevole, diligenti, benintenzionate operazioni - per chi, essendo proiettato in direzione dell'assoluto, non si può accontentare dell'accontentarsi, essendo questo null'altro che rinuncia, ripiegamento? E proprio il carattere di operazione degli interventi adulti li rende tanto più incomprensibili e insensati. I bambini sono lontani, ed è un po' come se dicessero: tu, adulto, che hai il potere di fare quel che fai, proprio perché hai questo potere hai il potere; perché usi il tuo potere soltanto per negare, per ridimensionare, per cambiare sempre al ribasso, per non contentare davvero, per accontentare e basta e non invece per felicitare? A che serve, alla fine dei conti, il tuo potere? Che potere è? E' un potere sterile, triste, privo di magia.

In un racconto di Joao Guimaraes Rosa che dà il titolo all'intera raccolta in cui è contenuto35, si narra di un bambino che arriva "nel luogo in cui si costruiva la grande città"36. E lì, vicino alla casa, alla foresta, "vedeva, intravedeva. Respirava forte (…). Signore! Quando avvistò il tacchino, al centro dello spiazzo, tra la casa e gli alberi della foresta. Il tacchino, imperiale, gli dava le spalle, per ricevere la sua ammirazione. Aveva esploso la coda, e si gonfiò, facendo la ruota: il raspare delle ali per terra - brusco, rude,- si era proclamato. Gloglottò, scuotendo il bargiglio denso di chicchi rossi, e la testa aveva screziature d'un azzurro chiaro, raro, di cielo e sanhaços: e lui, completo, tornito, rotondoso, tutto in sfere e piani, con riflessi di verdi metalli in azzurro e nero - il tacchino per sempre. Bello, bello! Aveva un che di calore, potere e fiore, un traboccamento. La sua ispida grandezza tonitruante. La sua colorita arroganza. Soddisfaceva gli occhi, era da suonare la tromba. Collerico, tronfio, movendosi sgorgogliò altro gluglu. Il Bambino rise, con tutto il cuore" 37. E nell'ultimo racconto della raccolta, Le cime, quello stesso bambino vede un tucano: "Su uno degli alberi si era posato un tucano, in blando battito orizzontale. Così vicino! L'alto azzurro, le fronde, il luminoso giallo attorno e i molti tenui rossi dell'uccello - dopo il suo volo. Era da vedere: grande, agghindato, il becco simile a un fiore parassita. Saltava di ramo in ramo, mangiava dall'albero carico. Tutta la luce apparteneva a lui, che la spruzzava dei suoi colori, lanciandosi ogni tanto nell'aria, bizzarro-languido, splendentemente sospeso. Sulla vetta dell'albero, sui piccoli frutti, tuc, tuc,... e poi si puliva il becco sul ramo. E, a occhi spalancati, il Bambino, senza poter neppure trattenere per sé il breve istante magico, appena nei silenzi di un-due-tre. Nel tacete di tutti. Perfino lo Zio. Lo Zio, anche lui, se la stava godendo: si puliva gli occhiali. Il tucano si arrestava, udendo altri uccelli - chissà, i suoi piccoli - dalla parte della foresta. Il grande becco in alto, lanciava a sua volta, a una o due riprese, quel grido un po' rugginoso dei tucani: “Creee!”... Il Bambino stava lì lì per piangere. Frattanto, cantavano i galli. Il Bambino ricordava senza alcun ricordo. Si bagnò tutte le ciglia. E il tucano, il volo, dritto, lento - come volò via, sciò, sciò! ...: mirabile, colori librantisi, nella sfarzosità; si fece.sogno (...). Tanto tempo, e il bambino non apriva bocca. Afferrava con lo sguardo ogni sillaba dell'orizzonte"38.

Ma poi, del tacchino, il bambino ritrova "solo qualche penna, dei resti, per terra – “Eh, lo abbiamo ammazzato. Domani non è il compleanno del dottore?” " 39. Benintenzionati, anche qui. Per festeggiare. Così come per alleviare al bambino un'ansia, "per consolarlo, concertavamo il modo di prendere il tucano: con lacci, sassata sul becco, colpo di fucile nell'ala" 40. Soppressione e possesso, sempre. Negazione, fine. Con buone intenzioni, a fin di bene, ma negazione e fine, senza incantamento, senza alcuna magia. Alla scoperta dell'uccisione del tacchino "tutto perdeva l'eternità e la certezza; in un soffio, in un attimo, ti derubavano delle cose più belle. Come potevano?" 41. E di fronte alla prospettiva della cattura del tucano “No e no! - si arrabbiò, afflitto. Ciò che immaginava, ciò che voleva, non poteva essere quel tucano catturato. Ma la prima fine luce del mattino, con dentro, il volo esatto" 42.

La determinazione dei bambini; l'ardore, l' “energia ed efficacia de' loro desideri”; la loro forza; il loro puntare ad andare a segno in modo radicale, pressoché assoluto, come le cose - "le cose sono assolute e rigorose come i bambini e ciò che esse decidono è definitivo e irreversibile"43 -; il loro “potere magico”; tutto questo, nei bambini, si evidenzia in modo preciso. E, per non fare che un esempio, si può pensare al gioco.

L'altro giorno un bambino, accucciato a terra, stava scavando un buco con uno stecco. Una bambina gli si è avvicinata e, roteando in aria un golf che impugnava tenendolo per gli sbocchi delle maniche, gli ha detto: "Vuoi essere il mio cavallo?". Lui l'ha guardata un momento, si è alzato, s'è pulito le mani sui calzoni, si è voltato e ha mosso la testa per assecondare l'imbrigliatura. Ha stretto il golf tra i denti, le maniche si sono tese e sono partiti al galoppo.       

Nel romanzo di lan McEwan, Bambini nel tempo, si racconta di quella volta che Stephen e Julie avevano portato la figlia Kate al mare e si erano messi a costruire un castello di sabbia. "Il trio lavorava in chiassosa armonia, dividendo l'uso di un secchiello e due palette, scambiandosi ordini perentori, dichiarando il proprio favore o la disapprovazione per l'altrui scelta delle conchiglie o la forma delle finestre, e correndo - mai camminando - avanti e indietro per la spiaggia in cerca di materiale nuovo. Quando tutto fu a posto ed ebbero fatto svariati giri di ricognizione intorno al capolavoro, si strinsero dentro le mura e sedettero in attesa della marea. Kate era convinta che il loro castello fosse stato costruito tanto bene da poter resistere al mare; Stephen e Julie l'assecondarono, facendosi beffe dell'acqua quando prese a lambire appena i contorni e scacciandola a fischi quando iniziò a risucchiare i primi pezzi del muro. Mentre aspettavano la rovina finale Kate, che si èra infilata tra loro due, li supplicò di rimanere dentro al castello. Voleva che ne facessero la loro casa. Basta con Londra, sarebbero rimasti per sempre a vivere sulla spiaggia e a giocare questo gioco. Ed era stato più o meno a quel punto che gli adulti avevano rotto l'incantesimo e si erano messi a guardare l'orologio e a parlare di cena e di molti altri impegni. Fecero notare a Kate che tutti e tre dovevano passare da casa a prendere il pigiama e lo spazzolino da denti. Questa le parve un'idea carina e sensata e si lasciò persuadere a riprendere il sentiero e tornare all'automobile. Per giorni poi, finché la faccenda non fu del tutto dimenticata, continuò a chiedere quando sarebbero andati a vivere nel loro castello di sabbia. Lei aveva detto sul serio. Stephen pensò che se fosse riuscito a far tutto con l'intensità e l'abbandono con cui quella volta aveva aiutato Kate a costruire il castello, sarebbe stato un uomo felice e straordinariamente potente".44

Intensità e abbandono, però - essendo caratteristiche del darsi piuttosto che del ricevere, dello spendersi piuttosto che dell'incassare, del gratuito piuttosto che del remunerativo, della dissipazione piuttosto che dell'accumulare -, hanno ben poco a che fare con la "ragionevolezza", e stridono forte con il calcolo preordinato tipico di chi, in assenza di "potere magico", punta a sopperire a questo vuoto volgendosi al potere tout court. Quello quantificabile. Quello che non si cura del senso dell'esistenza, bensì di null'altro oltre le cifre che la  circoscrivono. Quello, insomma, dei “grandi”; i quali, come ribadisce insistentemente Saint Exupéry in Il piccolo principe, "amano le cifre". Infatti, "quando voi gli parlate di un nuovo amico mai si interessano alle cose essenziali. Non si domandano mai: "Qual è il tono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle?". Ma vi domandano: "Che età ha? Quanti fratelli? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?". Allora soltanto credono di conoscerlo. Se voi dite ai grandi: "Ho visto una bella casa in mattoni rosa, con dei gerani alle finestre, e dei colombi sul tetto", loro non arrivano a immaginarsela. Bisogna dire: "Ho visto una casa di centomila lire", e allora esclamano: "Com'è bella" Così se voi gli dite: "La prova che il piccolo principe è esistito sta nel fatto che era bellissimo, che rideva e che voleva una pecora. Quando uno vuole una pecora è la prova che esiste". Be', loro alzeranno le spalle e vi tratteranno come un bambino. Ma se voi invece gli dite: "Il pianeta da dove veniva è l'asteroide B 612" allora ne sono subito convinti e vi lasciano in pace con le domande. Sono fatti così. non c'è da prendersela. I bambini devono essere indulgenti con i grandi"45.            '

Se è vero che i grandi appagano le loro curiosità con una cifra - e Saint-Exupéry ne fornisce una significativa e bellissima esemplificazione con l'uomo d'affari che conta le stelle per possederle  ("E a che ti serve possedere le stelle?". "Mi serve ad essere ricco", "E a che ti serve essere ricco?" "A comperare delle altre stelle"46) - e così, appagati e tacitati, "vi lasciano in pace con le domande", è altrettanto vero che i bambini invece, con le domande, davvero non lasciano in pace nessuno. Domande di ogni tipo, domande su domande, senza fine. E, spesso, forse più concentrati sul fare domande che non sulle risposte. Scriveva Elias Canetti che "dall'equilibrio fra sapere e ignoranza dipende quanto si è saggi. L'ignoranza non deve impoverirsi con il sapere. Per ogni risposta deve saltare fuori – lontano e apparentemente non in rapporto con essa, una domanda che prima dormiva appiattata. Chi ha molte risposte deve avere ancor più domande. Il saggio rimane bambino per tutta la vita, le sole risposte inaridiscono il corpo e il respiro"47. E Peter Bichsel: "I bambini vivono in mezzo alle domande, gli adulti in mezzo alle risposte. Accade che i bambini rinuncino alle risposte, non vogliano risposte, ma solo domande, come se esistessero un mondo delle domande e uno delle risposte, che si incontrano solo del tutto casualmente - due antimondi"48.            '

Il maggior valore delle domande rispetto alle risposte è evidenziato anche in un romanzo di David Grossman, dove si racconta che Kasik "non la smetteva di far domande su domande, e perché e perché e perché e come e cosa, domande facili e domande difficili, e poi non aspettava mai una risposta" e sembrava che "il fatto stesso di pronunciare le parole in tono di domanda" eccitasse il bambino, "come se avesse dentro di sé una molla tesa e dolorosa, fatta a forma di punto interrogativo, che gli scattasse dentro a ogni momento procurandogli un momentaneo sollievo"49. Ma c'è di più: c'è il fatto che quell'incessante porre domande, quel "modo di pensare contorto", a un certo punto al dottore sembra che si tratti di qualcosa come "i contorcimenti di quegli esseri che durante i suoi studi  aveva osservato sotto le lenti del microscopio, quegli esseri che completano in ognuno dei loro contorcimenti una fase della loro vita e balzano alla fase successiva"; e comunque '”quelle domande erano sempre interessanti e piene di fantasia e di speranza, e molto più ricche delle risposte"50 che vi si sarebbe potuto fornire.

Ma, ancora, c'è ancora dell'altro: c'è il fatto che  “anche i grandi non sanno tutto". Ed è una scoperta di immensa importanza, che nasce in ogni caso dall'inesausto domandare di un bambino che guarda la vita, il mondo, il tutto, e non si contenta, e domanda e domanda, camminando camminando. Racconta Isaac B. Singer: “Quando ero ancora piccolo cominciai a formulare ogni sorta di pensieri, come questi ad esempio: che cosa accadrebbe se un uccello volasse per sempre in una stessa direzione? Oppure: che cosa accadrebbe se si costruisse una scala che andasse dalla terra al cielo? Oppure ancora: che cosa esisteva prima che fosse creato il mando? Quando ebbe inizia il tempo? E il tempo, ha forse avuto inizio? E come può il tempo avere inizio? E lo spazio dove finisce? E come può uno spazio vuoto avere un termine, finire? (...). Mi raccontavano che alcune stelle sono più grandi della terra. E io mi domandavo: ma se è vero che sono così grandi, come fanno a stare tutte dentro quella stretta striscia di cielo che sovrasta i tetti della nostra strada? E rivolgevo ai miei genitori domande di questo genere che li mettevano in difficoltà: non sapevano rispondere”51

Le reazioni degli adulti sono le più diverse: si va dal "non fare domande così sceme" di una madre di cui parla Bichsel52 al vagamente minaccioso sentenziare del padre di Singer che "diceva che non è bene indulgere a porsi questa tipo di domande"53 al frustrante rinviare di sua madre che "se la cavava dicendo che, quando fossi diventata grande, avrei trovato le risposte"54, alla demonizzante invettiva della nonna di Asa Heshel: anche lui faceva continuamente domande: “Quanto è alto il cielo? Quanto è profonda la terra. Che cosa c’è dopo la fine del mondo? Chi ha creato Dio? Sua nonna si tappava le orecchie."Mi fai impazzire", si lamentava. "E' un dybbuk, non un bambino!”55.

Non è certo soltanto la nonna di Asa Heshel ad avere dei dubbi sul fatto di trovarsi di fronte un bambino, propendendo piuttosto a credere che si tratti di un dybbuk, anima di un defunta che non trovando pace si alloga dentro il corpo di qualcuno e non se ne va più; ma qui, più che soffermarmi a scrutare "demoniache presenze", più che farmi prendere nel "giro di vite" di una affascinante rassegna di varia soprannaturalità, vaglio invece fermarmi in una ruvida e risentita pagina di diario. E' del 18 febbraio 1890, e dovranno passare ancora quattro anni prima che l'autore di quella pagina pubblichi un importante libro a torto lungamente considerato un libro per bambini. A torto, sì, perché Pel di Carota56  è invece un prezioso e doloroso libro sui bambini, sulle infanzie meticolosamente vessate dalle innumerevoli signore Lepic perfidamente determinate a impedire che gli esseri piccoli di loro proprietà tirino fuori le unghie.

In quella pagina di diario Renard scriveva: "Il bambino, Victor Hugo e molti altri, l'hanno considerato angelico. Bisogna vederlo invece feroce e infernale. La letteratura sui bambini non può essere rinnovata che da questo punto di vista. Occorre decidersi a fare a pezzi il bambino di zucchero che finora si è dato da succhiare al pubblico"57. Parole sante, direi; e basterebbe forse pensare a tutti quei bambini che beffeggiano gli "strani", i "diversi", infierendo su quelle "stranezze", e forse ancor più su quelle solitudini, in preda probabilmente a rigurgiti vendicativi e investendosi di una "superiorità" che qualcuno e qualcosa hanno inequivocabilmente annidato in certi loro anfratti. Sono molti i bambini che agiscono così, e se ne vedono a tutte le latitudini: "torme di bambini" che " facevano bersaglio di nutrite sassaiole un folle di Dio"58; "un gruppo di ragazzi (...) che ridevano e urlavano" al seguito di "un povero scemo, senza parenti, (...) visto altre volte e sempre schernito dai ragazzi", che cammina parlando da solo e piangendo59; bambini che tallonano insultandola "una contadina stracciona e sporca, gozzuta", che "andava, girando, senza ricovero certo, (...) dormiva per i campi, mangiava non si sa che"60; "una banda di bambini di strada" che insegue "un uomo vestito di stracci neri" che "chiocciava forte, ma in preda a una paura disperata, e muoveva le braccia come un uccello sbatte le ali"61; bambini alle calcagna di Peruonto - "il più sciagurato perdigiorno, il più grande scioccone, il più solenne zoticone che la natura avesse prodotto" - "tutti a gridare e a dargli la baia; che, se la mamma non era lesta a serrar la porta, l'avrebbero certamente ammazzato a colpi di cedrangoli e di torsoli"62; "una masnada di strani ragazzini (...), schiamazzandogli dietro, indicando la barba grigia", al seguito di Rip Van Vinkle, che ritorna a casa dopo essere uscito da un sonno di vent'anni da lui creduto di una sola notte.63

Probabilmente però Renard non pensava a questo; la sua era una specie di rivendicazione e di proposta programmatica, ed era anche qualcosa che aveva semplicemente a che fare con la memoria, una memoria inevitabilmente e giustamente risentita. E questa parola, memoria, sempre incombente su chi, alla faccia di Monsignor Della Casa, abbia il sordido vizio di voltarsi a guardare, mi porta subito immagini del tempo e del luogo della mia infanzia. Però, essendo molto d'accordo con Umberto Saba, il quale sosteneva che “compiacersi della propria infanzia, dei ricordi della propria infanzia, non è poi cosa tanto singolare; è cosa anzi della quale, per varie ragioni (…) si è, negli ultimi anni e in Italia, abusato"64, e non volendo in alcun modo incrementare l'abuso, farò come se non di me si trattasse, e quindi senza svelare se, di queste "eroiche gesta" che dirò, io fossi spettatore oppure attore.

Feroci e infernali, si camminava a lungo per i campi, armati, di fionde e di bastoni appuntiti, a caccia di talpe. Questa era la meta, la cui quasi sacra presenza non impediva però di dedicarsi, nel corso della spedizione, ad alcuni incontenibili amori: la chioma fronzuta di un ciliegio selvatico da cui poi sputare noccioli cercando di farli entrare in immancabili barattoli di latta preventivamente lasciati ai piedi dell'albero; le più viscide pietre del torrente; il volo pacato e sontuoso di. una poiana, la cui visione inchiodava al terreno nell'attesa che si facesse fulmine a rapire un coniglio; una lepre, una serpe o un topo; oppure il fare "dire Messa” a qualche "prete". Erano, questi, piccole farfalle nere che, per il loro volo lento e regolare, si potevano stordire facilmente con un semplice colpo della mano: cadevano a terra e, con feroce delicatezza, piccole abili mani infilzavano loro una pagliuzza nell'ano. I "preti" a quel punto si riprendevano e sbattevano le ali, celebrando così un rito che veniva solennizzato con un partecipe anche se un po' scomposto Kyrie eleisòn.

Ma queste erano distrazioni provvisorie, essendo appunto le talpe il vero obiettivo. Quando una veniva trovata, andava più o meno come a Pel di Carota; il quale, un giorno, "trova per strada una talpa, nera come uno spazzacamino. Quando ci si è ben divertito, si decide ad ammazzarla. La getta in aria parecchie volte, abilmente, in modo che caschi su una pietra. Dapprima tutto va bene, in fretta. Già la talpa s'è spezzata le zampe, spaccata la testa, rotta la schiena, si direbbe che non ne abbia più per un pezzo. Poi, sorpreso, Pel di Carota s'avvede che la talpa ha smesso di morire. Ha un bel buttarla alto come una casa, fino al cielo, non combina più nulla. - Accipicchia! non è ancora morta -, dice. Difatti, sulla pietra macchiata di sangue la talpa si contrae; il ventre pieno di grasso trema come gelatina e quel tremolio dà l'illusione della vita: - Accipicchia! - grida Pel di Carota accanendosi, - non è ancora morta! -. La raccatta, l'insulta, cambia sistema. Rosso, con le lacrime agli occhi, sputa sulla talpa e la scaglia con tutta la forza, a bruciapelo, contro la pietra. Ma il ventre informe si muove sempre. E più Pel di Carota s'accanisce a picchiare, meno la talpa gli sembra morire"65.

Anche Felipe, " un ragazzo di campagna, piccolo, rozzo, ben fatto (...), assai pronto e vivace"66, il cui intelletto "era quello d'un bambino"67, non si astiene dal praticare azioni analoghe; azioni di cui, a differenza che con Renard, non conosciamo i particolari, ma che confermano comunque quanto infondato sia considerare angelici i bambini. Infatti Felipe "con la sua rapidità, o colla destrezza (...) , prese uno scoiattolo in cima a un albero. In quel momento era un po' avanti, ma lo vidi cadere a terra e accoccolarsi, gridando forte dal piacere, come un bambino. Quel suono mi piacque, tanto era fresco e innocente; ma, mentre affrettavo il passo per avvicinarmi, il grido dello scoiattolo mi percosse il cuore"68. E aggiunge, l'io narrante di Olalla, che, pur avendo già avuto diverse esperienze di crudeltà dei ragazzi, "quello che vidi… mi eccitò a una collera furiosa. Buttai da parte Felipe, gli tolsi di mano la povera bestia, e con rapida misericordia l'uccisi"69.

Certo! Probabilmente è anche la completa gratuità del gesto di Felipe a suscitare quella collera - così come anche le eventuali inorridite indignazioni a fronte della gratuità dei tormenti inflitti alle talpe -; però, almeno qui, non è questo che conta. Quel che conta davvero e che queste pratiche esistono, e hanno gli stessi esiti anche qualora siano effettuate sulla base di una motivazione esplicitata, per esempio di natura "scientifica", come nel caso di Gonzalo Pirobutirro. Da bambino, "avendogli un dottore ebreo, nel legger matematiche a Pastrufazio, e col sussidio del calcolo, - dimostrato come pervenga il gatto (di qualunque doccia cadendo) ad arrivar sanissimo al suolo in sulle quattro zampe, che è una meravigliosa applicazione ginnica del teorema dell'impulso, egli precipitò più volte un bel gatto dal secondo piano della villa, fatto curioso di sperimentare il teorema. E la povera bestiola, atterrando, gli diè difatti la desiderata conferma, ogni volta, ogni volta! Come un pensiero che, traverso fortune, non intermetta dall'essere eterno; ma, in quanto gatto, poco dopo morì, con occhi velati d'una irrevocabile tristezza, immalinconito da quell'oltraggio. Poiché ogni oltraggio è morte”70.

E ogni morte è oltraggio, anche se accompagnata dal Kyrie o, come nel caso di Smerdiakov, da una meno improvvisata liturgia. Il servo di Karamazov, infatti, "nell'infanzia provava un gran piacere a impiccare i gatti e poi a sotterrarli in gran pompa. Per far ciò si gettava addosso un lenzuolo, che faceva da pianeta, e cantava, agitando sul gatto morto qualcosa a mo' di turibolo "71.

Tutto questo è nient'altro che vero, e potrebbero farsi altri esempi; ma io voglio aggiungerne uno soltanto, e solo per il semplice fatto che si trova nell'intrico stupendo di uno dei libri più belli e più grandi d'ogni tempo e di ogni paese: Grande Sertao, di Guimaraes Rosa. Racconta il jagunço Riobaldo: "Senta un po' questa: c'è un tale Pietro Pindò, a poco più di sei leghe da qui, uomo da bene in tutto e per tutto, lui e la moglie, sempre stati buoni, come si deve. Hanno un figlio di un dieci anni, chiamato Valter - nome moderno, è quel che piace adesso alla gente di qui, come lei sa. Ebbene, questo cosetto, cosettino, fin da quando baluginò in un qualche intendimento, mostrò in pieno quel che è: arido maligno, inacidito distruttore, con il gusto della cattiveria dentro, dal profondo delle specie della sua natura. Tanto che tormenta, adagio adagio, ogni bestiola o creaturina su cui mette le mani (...). Quel che lo fa sbavare di piacere, è vedere dissanguare una gallina o accoltellare un maiale"72.

Però è anche vero il contrario, vero altrettanto. Per i bambini, spesso, gli animali sono dei pari assoluti, esseri vivi per i quali provare nient'altro che amicizia e amore. Forse perché di fatto appartenenti alla stessa tribù, perché intuiti come possibili alleati naturali in quanto sia gli uni sia gli altri di volta in volta vezzeggiati o vessati, il più delle volte per oscure ragioni e spesso persino senza alcuna ragione; sia gli uni sia gli altri autonomi e in conoscibili ma anche forsennatamente dipendenti; in balia di grinfie e carezze di padri e di padroni, dei loro mutevoli imprevedibili umori. Ma al di là di questo, e comunque prima di questo, c'è il fatto che gli animali sono vivi, e sono quindi entità assunte semplicemente come compresenti a sé e al proprio essere nel vasto mondo. E' un po', forse, come con chi parli una lingua straniera sconosciuta: a differenza degli adulti, bambini di lingue diverse riescono a giocare insieme, riescono fare insieme, e giocano e fanno, e mentre giocano e fanno parlano anche - ognuno la propria lingua -, capendosi.

Un animale può essere a volte il riempitivo di un vuoto, il sostituto di qualcuno che manca; per i bambini è difficilmente così, è in genere invece una presenza tra le tante, che può benissimo coesistere con altre presenze, forti altrettanto.

Useppe73 non è più legato a Bella - la cagna con cui ha trascorso quasi tutto il suo tempo e che sarà uccisa perché impedisce a chiunque di avvicinarsi a lui morto - di quanto sia legato alla madre o al fratello Nino, lo è semplicemente altrettanto; ma è quasi soprattutto con lei che parla e racconta, in uno scambio reciproco e complice. E anche la madre di Useppe, pur non per scelta, ma per necessità, affida in piena fiducia il proprio figlio ogni giorno alle cure amorose e gioiose della cagna; e pur vivendo, in quanto adulta, un rapporto ben più distaccato di quello che vive suo figlio, nel momento annichilente dell’intuita fine della vita di Useppe, le si rivolge come a una persona, chiedendole una solidarietà sentita come possibile, utile e forse necessaria: "Ida provò lo stimolo di urlare; ma ammutolì a un ragionamento immediato: ‘Se grido, mi sentiranno, e verranno a portarmelo via…’. Si protese minacciosa verso la cagna:. ‘Sss’ le bisbigliò, ‘zitta, non facciamoci sentire da loro...’"74. E nel momento “regressivo” infantile, della speranza disperata che si tratti soltanto di un'altra "caduta" per un'ulteriore aggressione del "Grande Male", sarà la cagna a “dirle", a farle capire: "Solo in ritardo, incontrandogli occhi di Bella, essa capì. La cagna difatti era lì che stava, a guardarla con una malinconia luttuosa, piena di compassione animalesca e anche di commiserazione sovrumana: la quale diceva alla donna: "Ma che aspetti, disgraziata? Non te ne accorgi che non abbiamo più niente, da aspettare?""75.

Anche Miguilim, che pure vive vicino, a moltissimi animali, domestici e no, e ha avuto diversi cani, ha una predilezione specifica per una cagna, la Pingo-de-Ouro.

"Quando lui si nascondeva in fondo all'orto, per giocare da solo, quella appariva, senza intromettersi, senza abbaiare, restava lì accanto, sembrava che capisse"76. Ma un giorno il padre di Miguilim dà la cagna a dei mulattieri di passaggio, allora “Miguilim pianse bocconi, ne fece un lutto, singhiozzò molte volte" e poi "cominciò ad aspettare: Pingo-de-Ouro sarebbe tornata. Aspettò, aspettò, giudiziosamente. Perfino di notte, pensava che fosse lei, quando un cane si metteva ad abbaiare "77. E poi, dopo parecchio tempo, parlando con il fratello Dito che sta male perché si è fatto una ferita che lo porterà alla morte, “Miguilim raccontava, senza fare fatica, storie lunghe, che nessuno aveva mai conosciuto, non cessava di raccontare, era tanto allegro, eccitato, quella era per lui l'occupazione più importante. Si ricordava del sor Aristeo. Inventare favole, tutte con un vivere pulito, nuovo, da consolare (...). "Dito, un giorno voglio fare la storia più bella, più mia di tutte: che è con la Cuca Pingo-de-Ouro!...’ "78.

Non è solamente la Cuca Pingo-de-Ouro ad essere al centro dell'affetto tenero e forte di Miguilim; lo sono anche il fratello Dito, la madre, lo zio Terez, altri umani che vivono lì o che lì sono solo di passaggio; ma lo sono anche altri animali; e non è un caso che il padre, in uno dei ricorrenti accessi della furia crudele che lo connota, non punisca il figlio picchiandolo bensì distruggendo quel che ha di più caro: "Quel che fece fu uscire, prendere le gabbiette, una per una, le apriva, lasciando liberi gli uccellini, gli uccellini di Miguilim, poi calpestava le gabbie e le faceva a pezzi. Tutti quanti stavano zitti. Miguilim non si mosse. Papà aveva messo in libertà tutti gli uccellini, perfino la coppia di tico-tico-reis, che Miguilim aveva preso da solo, per idea propria, con un setaccio, sulla porta della cucina, una volta, Miguilim aspettò ancora per vedere se papà gli veniva addosso, per ricominciare. Ma non venne. Allora Miguilim si mosse. Andò in fondo all'orto, dove aveva un giocattolo di girandola d'acqua - ci mise il piede sopra, lo sfasciò. Andò alla pianta di acagiù, dove stavano appese le trappole per prendere gli uccelli, e le ruppe tutte. Poi tornò, riunì tutti i giocattoli che aveva, tutte le cose messe da parte (...) e buttò tutto fuori, sull'aia"79.

Un sopruso così grande, una così calcolata determinazione a ferire - e queste ferite per i bambini sono qualcosa di immane e definitivo, anche se poi se ne consolano rivivificandosi in un appassionamento rinnovato - non portano all'insorgere di una azione contrapposta che contrasti direttamente con la sorgente del proprio dolore, bensì ad una amplificazione dello squarcio, come a impedire che il proprio dolore possa non essere davvero totale, immedicabile, senza rimedio. "Essere piccoli, non si aveva forza per poter ordinare nessuna cosa"80, scopre Miguilim, e allora capisce che è su di sé che si deve agire, che più che aspettarsi il convergere dei grandi verso il proprio sentire ha senso il progettarsi differenti; e se i grandi sono capaci di essere "così sorridenti (…), così animati, allegri, nel momento di cacciare senza ragione, di ammazzare l'armadillo e gli altri animaletti inermi" e addirittura. "non volevano neppure che lui Miguilim sentisse pena dell'armadillo", allora lui "inventava un'altra specie di disgusto per le persone grandi. Crescesse pure quanto si voleva, mai avrebbe potuto stimarle"81. Ma soprattutto "Miguilim non aveva voglia di crescere, di essere una persona grande, i discorsi delle persone grandi erano sempre le stesse cose secche, con quella necessità di essere violente, cose spaventate"82.

Mi sembra che qui ci sia una straordinaria denuncia, una consapevolezza profonda e una radicale rivendicazione; cioè esattamente il contrario di un sogno regressivo. Non la tentazione di una tana dorata in cui rannicchiarsi in astensione, bensì un impulso di rivolta contro quelle maschere di paura, quei mascheramenti della paura, che sono le esibizioni di forza e di potere, l'aridità, l'asetticità difensiva, lo spigoloso chiudere.

E contro la prevaricazione fisica, anche. "Piedipapera assestò uno scapaccione al figlio della Locca, per insegnargli l'educazione. - Bestia! quando parlano i più vecchi di te sta zitto", racconta Verga83; e Jules Vallès afferma subito, nelle primissime righe di Il ragazzo, di non sapere se ad allattarlo sia stata la madre oppure una contadina,"ma qualunque sia il seno che ho addentato, non ricordo una carezza di quando ero piccolo. Non sono stato vezzeggiato, carezzato, sbaciucchiato; sono stato invece molto frustato. Mia madre dice che non bisogna viziare i bambini, e mi frusta tutte le mattine; quando la mattina non ha tempo, è per mezzogiorno, raramente oltre le quattro"84. E sintetizza il proprio avvio dicendo: "Il mio primo ricordo è dunque quello di una mano di sculaccioni. Il secondo ricordo è pieno di stupore e di lacrime"85. Allora, forse, a quella necessaria pagina del diario di Renard - e con la certezza che lui stesso sarebbe ben d'accordo -, se ne deve affiancare almeno un'altra di Ursula K. Le Guin, una pagina in cui Owen Thomas Griffiths, il protagonista di Agata e pietra nera, dice: "Con tutto il parlare che si fa sulla crudeltà dei bambini, della crudeltà dei grandi non si è occupato nessuno. I bambini sono solo degli sciocchi, tanto quelli intelligenti che quelli tardi. Fanno un sacco di sciocchezze. Dicono quello che pensano86. Non hanno ancora imparato a dire quello che in realtà non pensano. Ci arriveranno più tardi, quando cominciano a trasformarsi in gente grande e scoprono di essere soli"87.

In realtà della crudeltà degli adulti qualcuno si è occupato. Basterebbe pensare ai grandi, bellissimi romanzi di Dickens e di Dostoevskij, dove innumerevoli sono le infanzie tormentate e sfruttate, oltraggiate e umiliate. E Victor Hugo, nonostante quel che giustamente affermava Renard, ha dato per esempio con Gavroche88 qualcosa di più e di diverso che una mera immagine "angelica". Inoltre Hugo non ha risparmiato parole sui comprachicos, che commerciavano in bambini, li compravano e li vendevano per fame dei mostri da attrazione divertita: "E' un fatto che c'erano bambini destinati a essere giocattoli per gli adulti. (Ci sono ancor oggi.) Nelle epoche primitive e feroci ciò costituiva un'attività particolare. Il secolo diciassettesimo, detto il grande secolo, fu una di quelle epoche (...). Questo secolo sfruttò molto i bambini". Ma "un bambino diritto non è molto divertente. Un gobbo fa più allegria. Da qui tutta un'arte. C'erano degli allevatori. Di un uomo facevano un aborto; prendevano un volto e lo trasformavano in grugno. Comprimevano la crescita, modellavano la fisionomia. La produzione artificiale di esemplari teratologici comportava regole precise. Era una scienza in tutto e per tutto. Basta immaginare una ortopedia al contrario"89.

Certo, forse in Victor Hugo c'erano intenzionalità dimostrative che, con il voler troppo dire, lo trascinavano lungo le chine insidiose dell'enfasi e della retorica. E probabilmente è invece proprio l'impostazione contraria a dimostrarsi poi, nei fatti, più efficace. In uno struggente, bellissimo e intollerabilmente doloroso romanzo, Giacoma Limentani ha raccontato di una bambina ebrea stuprata durante l'occupazione nazista. La narrazione, snodandosi come a voler occultare i dati di realtà, forse proprio per questo arriva ad imporre l'essenza incontrollabile dell'oltraggio e del dolore, permeante di sé tutto quanto. E gli oggetti, il gatto, la casa, le persone, le immagini, sono solo impregnati del segreto dell'oltraggio, tacendolo lo svelano, continuando ad esistere lo urlano in squarci. "La lama di pulviscolo tocca la sedia. Non l'ha ancora. tagliata. Mia madre non è ancora arrivata. Le assi trasversali che sorreggono il piano del tavolo formano una X. La X somiglia all'alef. Il centro nel centro del centro. Chi ha l'alef vede tutto. lo voglio entrare negli amici legni. Il legno non sanguina (...). Attraverso la lama di pulviscolo. Apro la porta. Non è vero che sia vivo chi sa, è vivo chi non sa, io sono morta. Il dolore è vivo, che non si vede. I morti sono chiusi in una scatola di pelle. Mia madre ha le braccia aperte su un pacco di gelati e di biscotti. Entra. E' una regina. Profuma d’aria e di caldo. Si dipinge la bocca a cuore. Non le lascio il tempo di darmi un bacio. Mi chino per prenderle i pacchi, con la testa. voltata. Se sento il suo profumo mi metto a piangere. Mi arrotolo su me stessa come il nastro rosso che mi hanno messo dentro"90.

A violare la vita non sono però soltanto le percosse, le violenze fisiche; i soprusi annichilenti. A violare la vita sono tutte le forzature, anche quelle che si presentano come valorizzazioni, come sottolineature di apprezzamento, come ammirata contemplazione del prodigio". Bibi Saccellaphylaccas è un bambino che suona il pianoforte, "dimostra nove anni, in verità ne ha solo otto, e danno ad intendere che ne abbia sette"91. Tutto vestito di bianco, con una giacchetta di seta bianca, calzoncini di seta bianca, scarpe di seta bianca, nastro nei capelli di seta bianca, si esibisce in concerto sotto gli occhi dell'alta società che si spella le mani ad applaudire e a profondersi in elogi tanto estasiati quanto vuoti e falsi. Già fatto esperto delle incombenze di ruolo, Bibi asseconda e stuzzica la messa in scena, concedendosi solo qualche attimo di isolamento: "allora i suoi strani occhietti da topo dalle ombre opache si distolgono dal pubblico e vagano oltre la parete dipinta al suo fianco per perdersi in uno spazio avventuroso, popolato di vaghe vicende"92. Solo per qualche istante, però, giacché subito si ricompone e rientra appieno nella parte. E dopo, alla fine del concerto, avrà un accesso di vero sentire, ma lo terrà per sé, dentro dentro.

La dama di corte (...) gli rassetta un po' la giacchetta di seta, e gliela liscia per renderlo presentabile, lo prende per il braccio e lo conduce davanti alla principessa e. con aria severa, lo invita a baciare la mano a Sua Altezza Reale. ‘Come fai, bambino?’ chiede la principessa, ‘ti viene in mente da sé, quando ti siedi?’. ‘Oui, Madame’, risponde Bibi. Ma fra sé pensa: ‘Ah, stupida, vecchia principessa!...’"93.

La descrizione di Bibi è molto accurata, precisa, attenta, e mostra riccamente i tratti e i gesti, colori e le posture, e le intenzioni e il sentire; e mi pare contenga una sintesi implicita, una sintesi che forse è anche un giudizio, o forse non lo è, ma è comunque qualcosa di inevitabilmente malinconico, triste; e tanto più triste se si pensa all'ostentata allegria che accompagna il "prodigio". Una sintesi esplicitata altrove da Ana Maria Matute. “Quel bambino era un bambino diverso. Non si calava nel fiume fino alla vita, né cercava nidi, né rubava la frutta dell'uomo ricco e brutto. Era un bambino che non amava i cani, né li martirizzava, né li portava a caccia con un fucile di legno. Era un bambino diverso, che non perdeva la cintura, né rompeva le scarpe, né avèva cicatrici sulle ginocchia, né si macchiava le dita coll'inchiostro viola. Era un altro bambino, senza sogni di cavalli. senza paura della notte, senza curiosità, senza domande"94.

Ebbene sì, senza curiosità, senza paura della notte, del buio, difficilmente si è bambini. Il tempo dell'infanzia è un tempo di forme e di colori; di oggetti che esistono in quanto si possono toccare e vedere distinti; un tempo in cui anche il fantasticato assume definitezza e consistenza, ed è ovviamente inevitabile, per esempio, che un bambino, giocando da solo, parli ad alta voce a quel qualcuno e quel qualcosa a cui ha dato vita. Ed è un tempo che non prevede vuoti, non ne tollera, che non prevede assenze. Un tempo in cui tutto è. E così l'indistinto della notte, l'indistinto del buio, la non definitezza delle forme, costituiscono solo un inspiegabile vuoto, un "niente" di cui si vede solo l'essenza angosciosa del non poter vedere, un "niente" che, ad osare toccarlo, non comunica nulla. A incutere paura, infatti, ancor prima e ancor più di quello che nel buio può nascondersi, è il buio stesso;  e comunque quel che in esso si potrebbe celare è addirittura tutto, minaccia immane perché senza forma né confini, e tanto incombente quanto inconoscibile. Ira Stigman "aveva paura del buio, paura di scendere in cantina da solo; impaurito, anche quando la sera doveva portare la spazzatura giù nei bidoni per le immondizie davanti a casa - come si tirava indietro, quanta resistenza faceva a compiere quell'incarico! La porta chiusa della cantina in fondo alle scale debolmente illuminate, prima di voltare per il vestibolo che dava sulla strada, lo riempiva di panico”95.

Anche David Schearl deve cimentarsi con il buio, con la notte, con la terrificante minaccia della cantina: "Uscì fuori sul pianerottolo. Dietro di lui, al delicato richiudersi della porta la luce ammiccò e svanì, come al chiudersi di una palpebra. Saggiò le scale, che scivolavano sotto di lui nell'oscurità, e afferrando uno ad uno i sottili montanti della ringhiera, cominciò a scendere. Tutte le volte che si trovava a essere solo per quelle scale, David rimpiangeva che fossero coperte dalla guida. Come facevi a sentire il rumore dei tuoi piedi, nel buio, se c'era una guida che soffocava ogni passo che facevi? E se non potevi sentire il rumore stesso dei tuoi piedi né vedere niente, come potevi essere sicuro che eri veramente lì, e non stavi sognando? A qualche gradino dal pianerottolo di fondo si fermò, e fissò irrigidendosi la porta della cantina. Era gonfia di oscurità (...). Buio tutto intorno a lui, ora, notte assoluta e insondabile. Non un raggio la penetrava, non una scaglia di luce vi vagava. Dalle impenetrabili profondità sottostanti, lo smorto fetore di palude di un segreto marcire si dipanava contro le sue narici. Non v'era silenzio, qui, ma anzi, se aveva il coraggio di ascoltare, udiva colpetti e scricchiolii, picchiettii e bisbigli, tutti furtivi, tutti malevoli. Era orribile, il buio. Là vivevano i topi, le orde dell'incubo, quei musi distorti, quelle cose, striscianti e informi”96.

Un altro bambino, Itchele, quando aveva otto anni non è che potesse andare chissà dove, la sera; e non solo a causa della sua età, ma anche perché "il cortile di casa nostra era buio e la piccola lampada a petrolio del corridoio emanava più fumo che luce"97. Per di più "le storie di diavoli, demoni e lupi mi facevano temere di uscire"98. L'unico luogo in cui potesse andare era la casa di Shosha, una bambina di nove anni, bellina, con le trecce e gli occhi celesti. Erano "attratti reciprocamente perché ci piaceva raccontarci storie a vicenda: e ci piaceva anche giocare insieme"99, però "per andarci dovevo attraversare un corridoio molto buio. Ci voleva solo "Un minuto, ma era pur sempre un minuto pieno di terrore"100. 'Nonostante questo, l'attrazione era più forte e, con l'aiuto della ripetizione continua di “quelle parole che avrebbero dovuto proteggermi contro le creature della notte"101, Itchele correva a perdifiato dal suo amore. Amore, sì, anche se allora, a otto anni, "non sapevo che la mia amicizia con Shosha, la figlia della nostra vicina Bashele e di suo marito Zelig, aveva qualcosa a che fare con l'amore"102.

Consapevoli o no di che cosa si tratti, i bambini si innamorano e si amano. Quando questo accade, è un costante, emozionato, esclusivo cercarsi e volersi vicini, giocare e giocare, parlarsi e mandarsi biglietti di disegni e parole, e raccontarsi storie, sognarsi, sorridersi, guardarsi, darsi baci, tenersi per mano - “Darsi la mano, l'amore dei piccoli"103 -, e confidarsi segreti, sussurrarsi piccole parole stordenti, pensarsi nel cammina cammina, E tutto questo ancora una volta in "rapimento", come in una necessità: incontenibile, e in compresenza di tenerissime furie e di furibonde tenerezze. Sono amori il cui avere fine è tanto repentino e radicale quanto lo era stato il loro prender vita; e la loro forza, la loro profondità, non si manifesta tanto in durata quanto piuttosto in intensità. "Un giorno, invitata a una festa di bambini della mia stessa età, ne fui ricondotta a casa piangente, e così sconvolta da averne poi la febbre. E ciò perché un minuscolo indiano, ch'io non conoscevo affatto, ma che avevo subito preferito a tutte le altre maschere per il suo splendido costume, s'era involato nella danza, quasi al mio primo entrar nella sala, fra le braccia d'una spagnola104.

A volte poi qualcuno si innamora non di un coetaneo ma di un "grande ", e poco importa che questo amore sia, contraccambiato. O meglio, importa poco relativamente alla forza del proprio sentire, comunque erompente; importa invece moltissimo per l'intensità del dolore che il distacco della persona amata produce.

Norina, “che ha sei anni, al momento di andare a dormire dopo avere partecipato alla festa, è inconsolabile" per via del signore, di quello che ha ballato con lei, di quello con la giacchetta del frac, del signor Hergesell"105. Norina piange, "e intanto che dagli occhi prorompono le lagrime, lascia sfuggire monotoni lamenti che non hanno nulla a che fare col piagnucolio irritante e superfluo dei bambini male avvezzi, ma sgorgano da una vera sofferenza del cuore (...). Essa bagna delle sue lagrime la faccia del babbo. ‘Abele... Abele...’ balbetta tra i singhiozzi. ‘Perché... Max... non è mio fratello? Bisogna... che Max... sia mio fratello...’"106. E soltanto quando Max Hergesell verrà chiamato e le parlerà augurandole la buonanotte, Norina riuscirà ad acquietarsi e ad entrare appagata nel sonno.

Toni è un poco più grande di Norina, ha sette anni, e prova una violenta gelosia per il fatto che ci sono ragazzi ronzanti attorno a sua cugina Paola, che la chiamano a gran voce dalla strada e le mandano baci. "Quella sera Toni non volle mangiare, stava con la testa china sul piatto che si raffreddava e sembrava volesse mettersi a piangere. Suo padre volle sentire se aveva la febbre e gli parve un poco caldo. Quando fecero il letto per Paola quella sera Toni non le diede la buona notte, né le augurò di fare sogni d'oro. Sua madre gli disse di farlo, ma egli corse verso il suo lettino - senza dire niente. Spenta la luce sentirono che si rivoltava e non prendeva sonno. Più tardi sua madre intese che piangeva, e ripeteva: ‘Maledetti, Paola è mia’"107.

Questi amori prescindono dalla scoperta del sesso, che è spesso qualcosa di completamente subito, di avvertito soltanto in seguito ad azioni e parole altrui, e prevalentemente misteriose, nascoste; una scoperta che, attuandosi con questi aloni di mistero tenebroso, e da nascondere, è perlopiù sentita come qualcosa da sfuggire, o da elaborare come attrazione repulsiva.

Tra gli innumerevoli pregi di quel romanzo straordinario che è Chiamalo sonno c'è anche quello di non avere trascurato la scoperta del sesso come elemento di grande importanza nello snodarsi della vita di un bambino. E non è senza significato che, alla fine del romanzo, quando David fruga la rotaia con un ramaiolo nel tentativo di provocare una grande scintilla, una grande luce che gli dia la visione di Dio, lo faccia con una commistione di accoratezza mistica e di evocazione sessuale: "Risfidato! Risfidato! Mi hai sfidato e risfidato! Dove c'è la luce nel buco mi hai sfidato. Ora devo (...). Ora! Ora devo. Nel buco, ricordati. Che nasca nel buco"108.

Ma le prime esperienze di David Schearl relative alla scoperta del sesso sono soltanto angosciose e ansiogene. Una sera David è in casa con sua madre perché il padre è andato a teatro, con un biglietto premurosamente fornitogli dal suo amico Luter. E questi, con un pretesto, arriva e si mette a parlare, seduto mentre lei sta lavando le pentole." David, che si sporgeva da un lato della sedia, poteva vedere allo stesso tempo sia Luter che sua madre. Assorto a guardare sua madre, avrebbe fatto poca attenzione all'altro se non lo avesse colpito un improvviso movimento obliquo degli occhi di Luter verso di lui, che lo spinse a osservarli attentamente. Luter, gli occhi ridotti a una fessura da uno sbadiglio immobile, stava fissando sua madre, le anche di sua madre. Per la prima volta, David si rese conto di come la sua carne, racchiusa nella sottana "modellasse contro di essa forme distinte. Si sentì improvvisamente confuso, in lotta con qualcosa. nella sua mente che non riusciva a diventare un pensiero"109.

Qualche tempo dopo, in casa di Yussie e Annie, mentre il suo amico Yussie è stato mandato a prendere qualcosa e le due madri conversano tra loro, David rimane solo con Annie, bambina zoppa di poco più grande di lui. Annie lo porta nella camera da letto e lì dentro l'armadio a muro; dentro, nel buio più completo, lei si fa stringere e baciare. Poi: "Sai giocate spinto?", domandò lei. “Spinto? No, non so", disse lui con voce tremante: "Vuoi che ti faccia vedere come faccio. io?”. Lui stava zitto, terrorizzato. "Me lo devi chiedere tu ", disse lei. "Forza, chiedimelo". "Che cosa?". "Devi dire, vuoi giocare spinto? Dillo!”. Lui tremava. "Vuoi giocare spinto? ". "Ecco, sei stato tu a dirlo", bisbigliò lei. "Non dimenticarlo, sei stato tu a dirlo". Dall'enfasi delle sue parole, David capì di avere oltrepassato una qualche terribile soglia"110. E poi Annie lo fa giurare che non racconterà mai a nessuno quel che stanno facendo e gli chiede se sappia da dove vengono i bambini e gli rivela che vengono dalla knish. David non capisce, e non tanto perché non conosca l'yiddish, allora lei gli spiega. "In mezzo alle gambe. Quello che ce lo mette dentro è il babbo. Il babbo ha l'uccello. Tu sei il babbo". Ridacchiò furtiva e gli prese la mano. Lui sentì che la guidava sotto il suo vestito, poi attraverso un risvolto come una tasca. La pelle di lei sotto il suo palmo. Rivoltato si tirò indietro. "Devi farlo!", insisté lei, tirandogli la mano. "Sei stato tu a chiedermelo!". "No", "Mettimi la mano nella knish", lo blandì lei. "Una sola volta". "No!". "Ti terrò l'uccello”. Allungò la mano. "No!". Gli si accapponò la pelle. "Allora prendimi per la vita un'altra volta”. "No! No! Fammi uscire!". La spinse via. "Aspetta. Yussie crederà che ci stiamo nascondendo”. "No! Non voglio!". Aveva alzato la voce fino a gridare. "E allora vattene!". Gli dette una spinta rabbiosa. Ma David aveva già aperto la porta e era fuori. Lei lo afferrò mentre attraversava la camera da letto. "Se lo vai a dire!", bisbigliò velenosa. "Dove stai andando?". "Vado dalla mia mamma!". "Resta qui! Ti ammazzo, se vai di là!". Gli dette uno strattone. Lui aveva voglia di piangere.'"111.

Mi sembra piuttosto improbabile che esperienze di questo genere comunichino qualcosa riferibile alla gioia, alla tenerezza, alla spontaneità, alla naturalità; e così, per tutti i David, arrivare a pensare la sessualità come gioia, come espressione di sé gioiosa e serena, come valore anziché come vergogna, come scelta felice anziché come prevaricazione o sopruso, non potrà essere semplice. D'altra parte è un po' inevitabile: una cultura non propone che sé e il proprio riproporsi, e una cultura sessuofobica non sfugge a questa banalissima regola  nemmeno quando, come la nostra, apparentemente si nega attraverso la  liberalizzazione dei costumi, ma in realtà si ribadisce, accrescendo e affinando la mistificazione con la variante del rimpolpamento consumistico. Eppure, anche a questo proposIto, si potrebbe imparare qualcosa dai bambini, per esempio dalla bambina di cui parla Giacomo Noventa. "In un giorno, o in un'ora, di vacanza, dunque, la buona maestra incontrò una sua scolaretta. La scolaretta accompagnava una mucca. Sembrava più piccola di quando era chiamata alla lavagna o alla cattedra. La buona maestra s’intenerì e le chiese: Dove vai bambina?". "Porto la mucca al toro", rispose con grande semplicità la bambina. " Oh! non potrebbe farlo tuo padre?" osservò scandalizzata la maestra. "No, signora maestra - rispose ancora la bambina - ci vuole proprio il toro" "112.

Molto opportunamente Noventa afferma che "questa storia può sembrare molto buffa, ma non è una storia buffa. E' una storia molto commovente, e quasi dolorosa, sebbene sia una storia di tutti i giorni. Molti possono scrivere quel che ho scritto io stesso: "Di fronte agli uomini ingenui e ai fanciulli abbi pudore anche del tuo pudore ", ma quasi mai e quasi nessuno riesce a mettere in pratica un consiglio simile, o principio che sia. Noi agiamo quasi tutti come la buona maestra: rischiamo di ferire il pudore degli ingenui e degli innocenti quanto più vogliamo proteggerlo. Troppo fortunati, se la loro ingenuità e la loro innocenza sono così grandi da soverchiare il nostro moralismo e da impedirgli di nuocere"113.

Difficile, direi; molto difficile, molto, davvero.

La fortuna non so bene cosa sia, e soprattutto mi sembra che innocenza e ingenuità, quando ci sono, per quanto grandi siano, non lo possano essere mai abbastanza da riuscire a spuntarla nei confronti del "nostro moralismo". E nemmeno nei confronti della nostra perfidia; né della nostra ragionevolezza; del nostro colonialismo; delle nostre buone intenzioni; delle nostre malvagità; delle nostre freddezze; dei nostri conformismi; delle nostre disillusioni; delle nostre rassegnazioni; delle nostre indulgenze; dei nostri torpori; del nostro vivere morti; delle nostre ansie di potere; del nostro potere.            .

Soprattutto del nostro potere, con il quale i bambini non possono avere, per definizione, altro che vincoli puerili. E Mandel'štam - che in una poesia del 1931 diceva: "Col mondo del potere non ho avuto che vincoli puerili: / temevo le ostriche, e alle guardie lanciavo occhiate di sottecchi; / nemmeno di una briciola d'anima gli sono debitore"114 -, proprio per il carattere dei suoi vincoli con il potere, è morto in un lager staliniano, forse nel 1939, forse di consunzione, giacché pare che a un certo punto, puerilmente, non mangiasse più nulla, per il terrore puerile - cioè assoluto, infinito - di essere avvelenato.   

A intrattenere con il potere vincoli puerili, dunque, si muore. Allora, forse, Savinio aveva davvero ragione a sostenere che per l'infanzia - "onda continua di rivoluzione, e sistematicamente stroncata dai ‘grandi’", questi reazionari "115 - non si potesse parlare né di Commedia né di Dramma, bensì di "Tragedia, ossia sacrificio e annientamento"116; allora, forse, Savinio aveva davvero ragione a chiudere il suo libro con la frase asciutta e lacerante, dolorosamente verticale: "La parte del toro è fatta dai bambini"117.

E sarà anche un caso, ma non è senza significato che Saleem Sinai, nella ricerca, di "un terzo principio (...); la forza che si spinge tra i corni del dilemma; perché solo essendo altro, solo essendo nuovi, potremo mantenere la promessa della nostra nascita"118, arrivi ad affermare che "se esiste un terzo principio, si chiama infanzia. Ma muore; o meglio, viene assassinato"119.

E questo nonostante, nel caso di Saleem, si trattasse di bambini magici - ma forse il loro vero scopo altro non poteva essere che "l'annientamento; (e) non avremmo acquisito un significato se non quando ci avessero distrutti"120.

La parte del toro, dunque, sì.

Anche due libri della mia. bibbia lo dicono: "Gioventù. Ma la gioventù è faccenda da smentire, più tardi"121; e "Tutte le città della terra sono un'unica, maledetta congrega / contro i ragazzetti celesti"122; e "le fanciullezze sulla terra / sono un passaggio di barbari divini / col marchio carcerario della fine già segnata"123   

E poi si muore anche, da bambini, vittime del potere fanatico della fragilità biologica.

Si muore in una "sfolgorante giornata d'estate a Misiones, con tutto il sole, il caldo e la calma che la stagione può offrire"124. Un uomo aspetta il figlio che ritarda, ed è stupito perché "sarebbe già dovuto essere di ritorno. Per la fiducia che nutrono l'uno nei confronti dell'altro - il padre con i capelli brizzolati e il figlio di tredici anni - non si ingannano mai. Quando suo figlio risponde: "Sì, papà", farà ciò che promette. Ha detto che sarebbe tornato prima di mezzogiorno, e il padre gli ha fatto un sorriso nel vederlo partire. E non è tornato”125. Mezzogiorno è passato da un pezzo, allora l'uomo va, cammina nella radura, nella selva, esplora la palude, e inesorabilmente si afferma in lui la certezza che i suoi passi potranno portarlo soltanto al cadavere del figlio. L'angoscia disperata cresce, ed è come se l’uomo, in quel breve tempo, fosse invecchiato di dieci anni. Ma “le forze che impediscono a un povero padre allucinato di arrendersi al più atroce degli incubi hanno anche un limite. E il nostro povero uomo sente che le sue se ne vanno, quando all'improvviso vede sbucare il figlio da un sentiero laterale (…) "Bambino mio..." mormora l'uomo. Ed esausto si lascia cadere sulla sabbia ardente e cinge con le braccia le gambe del figlio"126. Questi racconta di avere fatto tardi perché ha seguito gli aironi, e “l'uomo torna a casa con suo figlio, e gli appoggia felice il braccio sulle spalle, ormai quasi alte come le sue. Ritorna in un bagno di sudore, e, pur abbattuto nel corpo e nell'anima, sorride dalla felicità. Sorride di una felicità allucinata… Perché quel padre se ne va solo. Non ha trovato nessuno, e il suo braccio poggia sul vuoto. Poiché dietro di lui, ai piedi di un palo e con le gambe in aria, strette da un filo spinato, il suo adorato figlio giace sotto il sole, dalle dieci della mattina, morto"127.

Anche molto più a nord, in un altro stupendo racconto, di Stig Dagerman, “è una bella giornata, e il sole che spunta brilla sulla pianura. Presto cominceranno a suonare le campane della chiesa, perché è domenica (…). Davanti agli specchi, posti sui tavoli di cucina, gli uomini si stanno radendo, le donne affettano, canticchiando, il pane per la colazione e i bambini seduti in terra si abbottonano le camicie. E il mattino felice di un giorno di sciagura, perché in questo giorno un bimbo sarà ucciso da un uomo felice"128.

Un bambino è con i genitori, stanno per fare colazione e parlano di una gita che faranno quel giorno in barca sul fiume. Nello stesso momento "l'uomo felice" è due paesi più in là, insieme a una ragazza, e fanno rifornimento di benzina perché stanno andando al mare. Ma la madre del bambino si accorge che manca lo zucchero e manda il figlio a prenderne in prestito un po' dai vicini. "Mentre attraversa correndo il giardino, il bimbo pensa al fiume e ai pesci che abboccano, e nessuno gli sussurra all'orecchio che gli restano solo otto minuti di vita e che il barchino resterà lì dov'è tutto quel giorno e molti altri ancora"129. Intanto l’uomo e la ragazza corrono veloci verso il mare, "l'uomo si sente felice e forte, mentre col gomito sfiora il corpo della donna. Non è un uomo cattivo. Ha fretta di arrivare al mare. Non sarebbe capace d! far male a una mosca, eppure fra poco ucciderà un bambino (…). Un attimo prima che un uomo felice uccida un bambino è ancora felice; e un attimo prima che una donna urli di terrore, chiude gli occhi e sogna il mare; e durante l'ultimo minuto di vita di un bimbo, i "suoi genitori stanno seduti in cucina ad aspettare lo zucchero e a parlare dei denti bianchi del loro piccolo e d'una gita in barca; e quel bimbo può chiudere un cancello e traversar la via con nella mano destra qualche zolletta di zucchero avvolta in un po' di carta bianca; e in quest'ultimo minuto non vede altro che un lungo fiume scintillante e grossi pesci e un ampio barchino dai remi silenziosi. Dopo, tutto è troppo tardi. Dopo, un'auto azzurra sta ferma, di traverso, sulla via, e una donna che urla si stacca la mano sanguinante dalla bocca. Dopo, un uomo apre lo sportello dell'auto e stenta a reggersi in piedi, perché sente dentro di sé una caverna d'orrore. Dopo, poche zollette di zucchero sono sparse sulla via tra il sangue e la ghiaia, e un bimbo giace riverso, immobile, con la faccia schiacciata contro la terra"130.

Si muore, dunque, anche da bambini, per la ferocia cieca d'un evento qualunque, che nasce magari come quieto frammento del consueto procedere dei giorni, ma ad un tratto impazzisce, prende accanimento, e infierisce con furia strappando via dal mondo. Dito, un fratello minore di Miguilim, un giorno va a spiare la civetta nella sua tana, là dove non c'è altro che "l'ombra di un albero grande, e sotto erba di campo", e si fa un taglio in un piede con un coccio di vaso. "Dito non poteva camminare, poteva soltanto andare saltando su un piede solo, ma gli faceva male, perché il taglio s'era infettato molto, e faceva materia. (...) sentiva dolore nelle spalle e dolore alla testa tanto forte, diceva che gli stavano infilando un ferro nella testina. (...) aveva la febbre molto calda, vomitava tutto, non s'accorgeva neppure che vomitava. (...) dormiva senza addormentarsi, restava dormendo anche quando gemeva. (...) Dito a volte teneva un occhio chiuso, risentito strillava per il dolore  di testa, sempre spiegavano che la febbre era più alta, poi lui diceva cose senza nesso, vomitava, non poteva sopportare la luce, e si abbandonava a un sonno profondo, ma in pieno sonno dava un grido ripetuto, brutto, senza svegliarsi"131.

Così Dito muore. E poco prima di morire "non riusciva più a parlare bene, i denti volevano restare chiusi, la bocca si apriva appena, ma pur così lui fece uno sforzo e disse tutto: "Miguilim, Miguilim, ti voglio insegnare quel che ora so, tanto: è che uno può restare sempre allegro, allegro, anche con tutte le cose brutte che succede che capitano. Uno deve allora poter diventare più allegro, più allegro, per dentro""132. .

Si potrebbe forse allora anche dire che Dito - dei quale la Rosa una volta disse che (...) parlava con ogni persona come se "fosse una, differente; ma che gli piacevano tutte, come se tutte fossero uguali"133 - si potrebbe anche dire che Dito sia uno dei "Felici Pochi" di cui ha parlato EIsa Morante.

 I quali Felici Pochi "diventano sempre più pochi / e sempre più infelici. / E si capisce: / gli Infelici Molti sono troppo affaccendati / a fabbricare trafficare istituire organizzare classificare propagandare / la loro enorme indispensabile felicità / per darsi pena dell'infelicità superflua / minoritaria / dei Felici Pochi. / Però si può sempre notare / il solito inquietante fenomeno plurisecolare: / in realtà, chissà perché, / l'infelicità dei Felici Pochi è/ più felice assai che non la felicità / degli Infelici Molti! / La felicità degli Infelici Molti / non è allegra! non è mai allegra!. / (…) e l'infelicità dei Felici Pochi / invece è allegra! ALLEGRA! / (…) / Nei ghetti / negli harlem / in Siberia / nel Texas / a Buchenwald / in galera / sulla forca sulla sedia elettrica / nel suicidio. / Assolutamente irrimediabilmente / definitivamente / ALLEGRA!”134.

Allegra, sì, perché inafferrabile, non imbrigliabile, anarchica. E, in quanto tale, libera, viva e salvifica. "Il mondo salvato dai ragazzini ", diceva EIsa Morante; ed è solo possibile crederlo, direi, se si pensa ai Felici Pochi, a Dito, a Miguilim, al Pazzariello - "ragazzino" emblematico -, a Rufo e la sua amica135.

E però, oggi, a distanza di più di vent'anni, è ancora più vero il "sempre più pochi e sempre più infelici". Per i conformismi oceanici e magmatici; per le rassegnazioni inebetite; per le grettezze inebriate; per la disintegrazione; per le sudditanze; per il cinismo; per i silenzi ammirati che accompagnano le innumerevoli sfilate in cui mille e un imperatore esibiscono i loro vestiti nuovi; per il prevalere e il prevalere delle risposte accomodanti sulle domande, e per il preporre accorato quelle a queste.

Ed è ben significativo che EIsa Morante, dopo Il mondo salvato dai ragazzini, abbia scritto La Storia, dove già non c'è salvezza per nessuno - e questo anche in modo non direttamente dipendente dalla guerra, oltre gli orrori e gli oltraggi che comunque la guerra produce -; ma poi, soprattutto, che abbia scritto un capolavoro splendido di disperazione infinita come Aracoeli. Eppure - e mi rendo ben conto che, probabilmente per paura, mi sto arrampicando sui vetri - mi viene da sottolineare che dentro alla disperazione totale di Aracoeli c'è però pur sempre anche un "personaggio positivo", l'unico di tutto il romanzo, ed è un bambino - un "ragazzino"? -. E' il ragazzino Pennati136, di cui non sappiamo neppure il nome, ma che, nel pur brevissimo tempo del suo apparire, si configura chiaramente per il suo essere ribelle e appassionato, tenero e tenace, fornito di acuminata sensibilità. E' vero, si tratta di una apparizione fugace dentro un mondo che non ha più alcuna possibilità di essere salvato, ma sta a dimostrare - almeno così mi piace pensare, o, forse, mi consola pensare - che forse, comunque, c'è un tempo, oltre il tempo, nel quale è possibile l'esistenza di chi "faceva romanzi sulla vita / degli immensi deserti dove splende, rapita, / la Libertà: foreste, soli, rive, savane / (...) cieli pesanti d'ocra, foreste immerse, fiori / di carne che nei boschi astrali si dischiudono, / scoscendimenti, rotte, vertigine e pietà! /  Mentre giù si animavano i rumori del giorno, / solo e steso supino sopra pezzi di tela / grezza, egli presentiva violentemente il mare!”137; che l’utopia può affacciarsi, ed emettere fiati di esistenza anche quando e anche là dove il drago notturno dell’irrealtà, la coscienza disintegrata, abbia prevalso138.

 Basta, mi fermo qui. Interrompo qui questo camminare arbitrario, lacunoso, partigiano; questo semplificare esemplificando, questo prendere alla lettera, questo decontestualizzare e ricontestualizzare, questo giocare, questo bieco ridurre a pezza giustificativa le vaste caleidoscopiche complessità dei luoghi e dei linguaggi, dei bambini incontrati. Mi fermo qui, anche sollecitato da un verso di Celan: "Non leggere più - guarda!"139.

Sì, basta, esco, faccio in giro in campagna.

E subito m'accorgo, nell'andare, che invece di guardare io vado ruminando qualche cosa. La prima è una sorta di rammarico, una malinconia, che nasce dal non avere incluso qui i molto amati bambini di Tolstoj. di Cechov, i tanti altri di EIsa Morante, il Jim di Stevenson e quello di James BaIlard, e i bambini di Kipling e Calvino, di Bruno Schulz, della Mansfieid, di Dylan Thomas, Salinger, della Ramondino, e quelli di Bilenchi; di Fazil' Iskander, di Platonov, di Grahame...

L'altra cosa è un ronzare, il ronzare del dubbio, se da qui si ricavi un qualche succo forte, una qualche seppure provvisoria parziale "verità".

 

In, un paese mi sono fermato, sedendomi su una panchina.

Sono passate, in bicicletta, due bambine. Una, infuriata e sporgendosi molto verso l'altra, sbandando ripetutamente, diceva sibilante: "Se chiami la Marta non gioco più con te, non sei più mia amica, non ti parlo più". L'altra non rispondeva, sembrava che seguisse un suo pensiero, sembrava che ascoltasse un suo sentire. E s'è fermata, qualche casa più avanti. S'è fermata e, mentre l'inviperita le continuava a dire qualcosa che io non ho sentito, ha squillato una voce senza fremiti: "Marta!".

E Marta, è uscita subito, correndo, con una bambola in mano, e quando le ha viste ha sorriso "come sanno sorridere però solo le bimbe sulle aie di campagna: cioè con tutta se stessa, se mi spiego, e non cogli occhi o magari la fronte solamente"140.

Proprio come l'amica di Rufo, che ha i riccetti neri a forma di stella e "quando ride, lei / mica ride solo con la faccia, ma pure con le manucce, col corpo, coi piedi! / non come l'altra gente solita"141.

Marta e la bambina che l'aveva chiamata si sono accucciate e hanno cominciato subito a parlare pastrugnando terra sassi stracci bambole acqua. L'altra, sulla bici, se ne è rimasta lì; le guardava, un po' torva, giocare.

 

Sì, forse c'è, qui, anche qui, una verità. Potrebbe essere questa, 'che "il mondo era grande. Ma tutto era ancora più grande quando si ascoltava una cosa raccontata"142.

 

 

 

 Note



1 Giovanni Della Casa, Galateo [1558], a c. di R. Romano, Einaudi 1975, pp. 74-75.

2 Protagonista del racconto incompiuto di Silvio D'Arzo, L'uomo che camminava per le strade. Il testo, dei primi anni '40, è stato pubblicato in " Contributi" (periodico della Biblioteca. Municipale "A. Panizzi". di Reggio Emilia), anno V, n.9, gennaio-giugno 1981, a cura di A.L. Lenzi.

3 S. D'Arzo, op. cit., p; 97.

4 James M. Barrie, Peter Pan [1911], tr. di M. Dandolo, Bompiani 1971, p. 125.

5 D'Arzo, op. cit., p. 97.

6 Lloyd de Mause (a cura di), Storia dell'infanzia, [1974], Emme 1983, p. 12.

7 Wystan H. Auden, Saggi, tr. di G. Fiori Andreini, Garzanti 1968, p. 25.  

8 Satura, [1971], in Eugenio Montale, Tutte le poesie, Mondadori 1977, pp. 409-410.

9 Luigi Meneghello, Pomo pero, Rizzoli 1974, p. 203.

10 Herman MelVille, L'uomo di fiducia. Una mascherata [1857], a c. di S. Perosa, Feltrinelli 1984, p. 120.

11 Ivi, p. 122.

12 Ivi, pp. 124-125.

13 Ivi; p.129.

14 Herman Melville, Israel Potter, [1855], tr. di G. Antonelli, Fe1trinelli 1980, p.26.

15 Herman Melville, Benito Cerezo, [1855], tr. di C. Pavese, Mondadori 1970, pp. 156-157.

16 William Faulkner, Santuario, (1931), tr. di P. Ometti, Mondatori 1950, p.195.

17 Nathaniel Hawthorne, Racconti narrati due volte (1837), tr. di A. Monti, De Agostani 1983.

18 Ivi, pag. 195.

19 Ivi, pag.199.

20 Ivi, pp. 200-201.

21 Ivi, p.202.

22 Ivi, p.203.

23 Ivi, p.204.

24 Ivi, pp. 204-205.

25 ivi, p. 205.

26 Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta, [1850], tr. di F. Valari, Garzanti 1985, p. 101.

27 Nathaniel Hawthorne, Racconti, tr. di F. Valari e M. Papi, Garzanti 1982.

28 Goffredo Fofi, Introduzione a Hawtharne, Racconti, cit. p. XXIV.

29 N. Hawthorne, Racconti, cit., p.63.

30 Ivi, pp. 64-65.

31 Ivi, p. 65.

32 Luigi Meneghello, Libera nos a malo, Feltrinelli 1963, pp. 43-44.

33 Walter Binni, La protesta di Leopardi, [1973], Sansoni 1977, p. 1O, n. 1.

34 Zibaldone, pp. 3265-3267, [1823], in Giacomo. Leopardi, Tutte le opere, a c. di W. Binni e E. Ghidetti, Sansoni 1976, vaI. II, pp. 816-817.

35 Joao Guimaraes Rosa, Le sponde dell'allegria, [1962], tr. di G. Lanciani, SEI 1988.

36 36 Ivi, p. 13.

37 Ivi, p. 15.

38 Ivi,pp. 200-201.

39 Ivi, pp. 16-17.

40 Ivi, p. 204.

41 Ivi, p. 17.

42 ivi, p. 204.

43 Pier Paola Pasolini, Il caos, [1968-1970], a c. di G.C. Ferretti, Editori Riuniti 1979, p. 153.

44 Ian McEwan, Bambini nel tempo, [1987], tr. di S. Bassa, Einaudi 1988, p. 102.

45 Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe [1943], tr. di N. Bregali, Bampiani 1978, pp. 22-24.

46 lvi, p. 63.

47 Elias Canetti, La provincia dell'uomo, tr. di F. Jesi, Adelphi 1978, 'pp. 16-17; il brano. citata è del 1942.

48 Peter Bichsel, Al mondo ci sono più zie che lettori [1975], tr. di C. Allegra, Marcos y Marcos 1989, pp. 33-34.

49 David Grassman, Vedi alla voce amore [1986], tr. di G. Scilani; Mondadori 1988, p. 443.

50 lvi, p. 444.

51 Isaac B. Singer, Un giorno di felicità [1963], tr. di F. Boesch, Bompiani 1971, pp. 5-6.

52 P. Bichsel, op. cit., p.33.

53 Isaac B. Singer, Un giorno di felicità, cit., p. 6.

54 Ibid.

55 I. B.. Singer, La famiglia Moskat [1950], tr. di B. Fonzi, Longanesi 1978, p. 38.

56 JuIes Renard, Pel di Carota [1894], tr. di P. Bianconi, Rizzoli 1951.

57 Jules Renard, Per non scrivere un romanzo. Diario 1887-1910, tr. di O.Vergani, Serra e Riva 1980, p. 66.

58 Farid ad-din ‘Attar, Il verbo degli uccelli [tra 1100 e 1200], a.c. di C. Saccone, SE 1986, p. 136.

59 Pomeriggio [1958], in Romano. Bilenchi, La siccità e altri racconti, Mondadori 1977, p. 198.

60 Lelio e Lina, in Joao Guimaraes Rosa, Corpo di ballo [1956], tr. di E. Bizzarri, Feltrinelli 1965, p. 230.

61 Elias Canetti, La lingua salvata [1977], tr. di. A. Pandolci e R. Colorni, Adelphi, 1991, pp. 19-20.

62 Giambattista Basile, Il pentamerone [1634], tr. di B. Croce, Laterza 1974, vol 1°, pp. 41 e 43.

63 Rip VanVinkle [1819], in Washington Irving, Racconti per una sera d'inverno, a c. di A. Brilli, Serra e Riva 1982, p. 111.

64 Storia e preistoria del Canzoniere [1948], in Umberto Saba, Prose scelte, Mondadori 1976, p. 209.

65 Jule Renard, Pel di Carota, cit., p. 33.

66 Olalla [1887], in Robert L. Stevenson, Racconti e tavole, a c. di A. Camerino, Einaudi 1960, p. 110.

67 Ibid.

68 Ivi, p. 112.

69 Ivi, p. 119.

70 Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore [1938 - 1941]; Einaudi 1970, p. 39.

71 Fedor Dostoevskij, I fratelli Karamazov [1880], tr. di A. Polledro, Corticelli 1950, p. 139.

72 Joao Guimaraes Rosa, Grande Sertao [1956], tr. di E. Bizzarri, Feltrinelli 1985, p. 14.

73 EIsa Morante, La Storia, Einaudi 1974.

74 Ivi, p. 646.

75 Ibid.

76 Joao Guimaraes Rosa, Miguilim, [1956], tr. di E. Bizzarri, Feltrinelli 1984, p. 21. Miguilim è la prima delle sette storie che formano il “ciclo romanzesco" Corpo di ballo; del ciclo fa parte anche Una storia d’amore, citata più avanti.

 

77 Ivi, p.24

78 Ivi, p. 97.

79 Ivi, p. 120.

80 Ivi, p. 46.

81 Ivi, p. 57.

82 Ivi, p.38.

83 Giovanni Verga, I Malavoglia [1881], Mondatori 1957, p. 32.

84 Jules Vallès, Il ragazzo [1879], tr. di L. Basso, Feltrinelli 1973, p. 35.

85 Ibid.

86 Ma questa - del pensare, ancor prima che del dire il pensato - non è certo un’acquisizione pacifica, e per sottolinearlo voglio ricordare soltanto l'illuminante dialogo tra Alice e la Duchessa: "Ti sei rimessa a pensare?" chiese la Duchessa. [...] "Ho il diritto di pensare” disse Alice secca, perché cominciava a preoccuparsi un po'. "Tanto quanto" disse la Duchessa, “ne hanno i maiali di volare"". Cfr. Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie [1865], tr. di M. d'Amico" Mondadori 1978, p. 89.

87 Ursula K. Le Guin, Agata e pietra nera, tr. di M. Giardina Zannini, Salani 1991, p. 7.

88 Victor Hugo, I miserabili [1862]" a c. di M. Picchi, Einaudi 1983.

89 Victor Hugo, L'uomo che ride [1869], tr. di B.Nacci, Garzanti 1988, p. 28.

90 Giacoma Limentani In contumacia, Adelphi 1967, pp. 21-22.

91 Il bambino prodigio [1903], in Thomas Mann, Padrone e cane e altri racconti, tr. di I.von Anrep, FeltrinelIi 1982, p. 189.

92 Ivi p.93

93 Ivi p.195

94 L'altro bambino, in Ana Maria Matute, I bambini tonti [1961], tr. di. R. del Balzo, Lerici 1964, p. 57.

95 Henry Roth, Alla mercé di una  brutale corrente, tr. di M. Materassi, Garzanti 1990, p. 90.

96 Henry Roth, Chiamalo sonno [1934], tr. di M. Materassi, Garzanti 1986; pp. 24 e 103.            .

97 lsaac B. Singer, Un giorno di felicità, cit., p. 141.

98 Ibid.

99 Ivi, pp. 141-142.

100 Ivi, p.141.

101 Ivi, p.143.

102 Isaac B. Singer, Shosha [1978]; tr. di M. Biondi, Mondadori 1982, p. 27.

103 Camillo Sbarbarò, "Truciol  dispersi.' Scheiwiller 1986, p.62. Il “truciolo” citato è del 1965.

104 Elsa Morante, Menzogna e sortilegio [1948], Einaudi 1975, p. 19.

105 Disordine e dolore precoce [1925], in Thomas Mann, Cane e padrone. Disordine e dolore precoce. Mario e il mago, tr. di L. Mazzucchetti e G. Zampa, Mondadori, Milano 1986, p. 176.

106 Ivi, p. 178.

107 Il piccolo Toni, in Giovanni Comisso, Il grande ozio, Longanesi 1964, p. 192.

108 Henry Roth, Chiamalo sonno, cit., pp. 475-476.

109 Ivi p.46.

110 Ivi p.60-61

111 Ivi p.61.

112 La vacca [1947], in Giacomo Noventa, Il grande amore e altri scritti. 1939-1948, Marsilio 1988, pp. 424-425.

113 Ibid.

114 Osip  Mandel'štam, Poesie, a c. di S. Vitale, Garzanti 1972, p. 87.

115 Alberto Savinio, Tragedia dell'infanzia [1945], Einaudi 1978, p. 99.

116 Ivi, p. 103.

117 Ibid.

118 Salman Rushdie, I figli della mezzanotte [1980], tr. di E. Capriolo, Garzanti 1984, p. 284.

119 Ivi, p. 285.

120 Ivi, p. 255.

121 Joao Guimaraes Rosa, Grande Sertao, cit., p. 23.

122 EIsa Morante, Il mondo salvato dai ragazzini [1968], Einaudi 1975, p. 14.

123 Ivi, p. 16.

124 Il figlio [1928], in Horacio Quiroga, Il deserto e altri racconti, tr. di C. Rojas Miguel e M. L. Ferrario, Mondadori 1990, p. 193.

125 Ivi p.195

126 Ivi,p. 197.

127 Ivi, p. 198.

128 Stig Dagerman, Uccidere un bambino [1948], tr. di M. Gabrieli, in "Linea d'ombra", anno VII, n. 39, ' giugno 1989, p. 45. Ora in S. Dagerman, Il viaggiatore, tr. di G. Tozzetti, Iperborea 1991.

129 S. Dagerman, op. cit., p. 46.

130 Ibid.

131 Joao Guimaraes Rosa, Miguilim, cit., pp. 94-100.

132 Ivi, p. 101.

133 Ivi, p, 105.

134 EIsa Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, cit., pp. 127-128.

135 Ivi, passim.

136 EIsa Morante, Aracoeli, Einaudi 1982, pp. 87-94.

137 I poeti di sette anni [1871], in Arthur Rimbaud, Opere, a c. di L. Margoni, Feltrinelli 1971, pp. 93-95.

138 Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, Adelphi 1987.  

139 Paul Celan, Poesie, tr. di M. Kahn e M. Bagnasco, Mondadori 1976, p. 101.

140 L'osteria [primi anni '40], in Silvio D'Arzo, Nostro lunedì, Vallecchi 1960, p. 174.

141 Elsa Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, cit., p.213.

142 Joao Guimaraes Rosa, [1956], Una storia d'amore, tr. di E. Bizzarri, Feltrinelli 1989, p. 26.