Da Il mistero della collina

ed. Giunti  Collana Gru under 14 - Firenze 1994

                                                                                                           

Nota del curatore del sito

In modo un po' arbitrario si è deciso di anteporre la nota finale che chiude questo bellissimo romanzo per ragazzi ai primi due capitoli, pubblicati in questa pagina: da sigillo ad anteprima, anch'essa in qualche modo illuminante...

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Il mistero della collina

Nota

 Ringrazio la tradizione orale chassidica, alla quale appartiene quel che viene raccontato nel Cap. 11.

Ringrazio gli indigeni del Perù perché la storia del Pongo, raccontata nel Cap. 13, è un loro racconto popolare che, con varie differenze e una diversa conclusione, si trova in Agua y otros cuentos indigenas, di José Maria Arguedas.

Ringrazio Silvio D'Arzo, perché è da un suo racconto che Ula Egve ha rubato la canzone. Il racconto di D'Arzo si trova in Nostro Lunedì, Racconti poesie saggi, Vallecchi 1960. Si intitola L'Osteria e venne pubblicato solo dopo che il suo autore era rimasto incantato.

Ringrazio Joao Guimaraes Rosa, perché nell'ultimo discorso della sua vita disse: "Le persone non muoiono, restano incantate".

Ringrazio Wanda Ricciuti perché ha accettato di illustrare il libro senza raffigurare i personaggi: essi, infatti, fin dall'inizio mi hanno chiesto di non essere nemmeno descritti, desiderando che ognuno potesse immaginarli da solo.

Ringrazio Lia, per il suo amore. E per il nostro bambino, Giacomo, cui il libro è dedicato.

                                                                                                                 Giuseppe Pontremoli

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Cap.1

 Nel quale si racconta come non successe quel che poteva succedere.

 Quella mattina, chi si fosse trovato a passare in Via del Contrabbasso ed avesse guardato verso l'alto, avrebbe sicuramente avvertito i pompieri, correndo e strillando.

Ma, o perché non passasse nessuno o perché chi passava fosse cieco quanto il

 portafogli di Geppetto, quella mattina in Via del Contrabbasso non si sentì strillare né arrivarono i pompieri. E per fortuna, perché non c'era proprio alcun incendio, anche se da una finestra del numero 46 uscivano fitte e frenetiche nuvole di fumo. Quella stessa mattina, ma un poco più tardi, se qualcuno si fosse trovato a passare per quella stessa strada avrebbe sicuramente notato le fitte e frenetiche nuvole che uscivano da una finestra del numero 46, ma probabilmente non avrebbe chiamato i pompieri. Avrebbe piuttosto sgranato gli occhi, si sarebbe tappato subito le orecchie ed avrebbe spiccato una corsa velocissima, preoccupato soltanto di allontanarsi il più possibile da lì. Ma, o perché non passasse nessuno o perché chi passava fosse sordo come un sasso di sottobosco, quella mattina non ci fu nessuno che corresse a mettere al riparo le proprie preziose orecchie insidiate da quella ormai quasi famosa finestra.

 Chi si fosse invece trovato, quella stessa mattina, ma ancora un poco più tardi, più o meno verso mezzogiorno, per quella strada, ben difficilmente avrebbe notato le fitte e frenetiche nuvole che uscivano dalla finestra del 46; un po' perché a quell'ora da quella finestra non usciva né fumo né voci, ma soprattutto perché l'attenzione sarebbe senz'altro stata attratta da una scena che si svolgeva proprio davanti al portone di quella stessa casa.

Ma anche a mezzogiorno, o perché non passasse nessuno o perché chi passava altro non fosse che un torsolo di pera, non si vide nessuno che rimanesse con la bocca spalancata a guardare il tipo ch'era sceso dal taxi ed era entrato al numero 46 di Via del Contrabbasso.

 E così - un po' perché a me certe volte le parole scappano come il sudore nei pomeriggi d'estate e un po' perché spero che stiano sempre meglio anche i portafogli di Geppetto, i sassi di sottobosco, i pompieri e i torsoli di pera - vi racconterò quel che successe quella mattina al numero 46 di Via del Contrabbasso. Quella mattina e dopo, perché quel che successe più tardi è ancora più degno di nota.

Intanto, avrete già capito che quella mattina io c'ero. C'ero sì, e per di più sono molto curioso, ed è proprio per questo che ho scelto di vivere in questo posto stupendo da cui si vede tutto senza essere visti.

Certo, a volte, per causa mia, succede che manchi la luce; succede che non scenda acqua dai rubinetti; che certi oggetti cambino di posto; che s'aprano porte e finestre; che... Basta così. Non ho certo intenzione di parlare di me. Ben altre cose ci sono da dire, di ben più grande importanza. Quanto a me, dirò ancora soltanto una cosa: che gli inconvenienti, i guai, le stranezze, le meraviglie, quanto insomma possa essere da me provocato, se può servire a migliorare la sorte dei torsoli di pera, ben venga.

 

Cap. 2

Nel quale si racconta di un telegramma e di una scopa, e si può anche sentire una canzone.

     Il suono del campanello era così forte che lo fece sobbalzare nel letto.

Un secondo squillo, più prolungato del primo e accompagnato da forti colpi alla porta, lo svegliò completamente.

- Che c'è? Chi è? - gridò con voce che voleva esser forte ma che invece uscì rauca e strozzata.

    - Telegramma! - rispose una voce squillante.

    - Sotto la porta! - gridò con voce che anziché rischiararsi risultò ancor più cavernosa.

    - Ma deve firmare! - replicò ancor più squillante la voce da fuori.

    - Firmi lei! - disse ancora più rauco.

   Sentì il fruscio del foglio che scivolava sul pavimento e, al di là della porta, il fischiettare allegro del postino che si allontanava scendendo le scale.

Voltandosi nel letto per riaddormentarsi, rivolse un pensieraccio al postino e a tutti quelli che la mattina erano di buon umore. Non li sopportava proprio. Anzi, più ci pensava e più lo prendeva il malumore; e, più lo prendeva il malumore, più difficile gli riusciva riaddormentarsi. Si rigirò nel letto. Non pensava più ai mattinieri e si stava rilassando, ma lo prese la curiosità per il telegramma: una curiosità sempre più acuta, più forte; talmente forte che lo costrinse a scendere dal letto.

Si sedette per terra e aprì il foglio.

 "ARRIVO MEZZOGIORNO CASA TUA BREVE VACANZA STOP SPERO FARTI PIACERE STOP SALUTI STOP POMPEO"

 Raramente aveva provato una gioia più grande e un grido acutissimo, che non sembrava proprio po­tesse uscire dalla stessa gola da cui erano usciti poco prima quei rauchi suoni rivolti al pstino, gli uscì dalla gola. Schizzò in piedi, lanciò in aria il telegramma, lo riprese, lo baciò. Saltò sul letto, ne ridiscese, si mise a far capriole; poi prese una sedia e con questa si lanciò in un ballo incontenibile.

A un certo punto si rese conto che mancava poco all'arrivo di Pompeo e decise che avrebbe preparato un pranzo straordinario. Posò la sedia che barcollò stordita dal ballo e corse a lavarsi. Poi, senza nemmeno asciugarsi, corse a far colazione e si accorse di aver mangiato il tubetto del dentifricio soltanto quando gli sembrò di sentire sotto i denti qualcosa di stranamente inattaccabile: guardò e scoprì che si trattava del tappo, ma non aveva tempo per preoccuparsene.

Sapeva che Pompeo non avrebbe certo badato alla confusione, alla polvere, agli oggetti accatastati, ma pensò che, dal momento che si trattava di un avvenimento straordinario, anche lui doveva fare qualcosa di straordinario, qualcosa che non aveva mai fatto.

Fu molto semplice prendere un vaso di fiori dal letto e posarlo sul davanzale della finestra - naturalmente non prima di avere tolto da là una pila di piatti che, dopo aver liberato lo sportello dagli abiti che vi erano appesi, mise dentro alla credenza da cui tolse dei libri mettendo li sul letto. Un po' più complicato fu trovare la scopa. Frugò dappertutto, spostò mille cose, guardò sotto il letto: niente, la scopa non c'era. Continuando a pensare dove potesse trovarsi la scopa, riprese a mettere tutto al suo posto, mai contento però della soluzione trovata. E così a un certo punto c'erano degli abiti appesi alle pareti, dei quadri nel frigorifero, berretti e cappelli nel forno, ed il vaso di fiori si trovava nuovamente sul letto.

Era un po' scoraggiato: un poco perché nel frattempo il tempo passava, un poco perché gli sembra­va che qualunque disposizione degli oggetti nella stanza fosse inadeguata a festeggiare come avrebbe desiderato l'arrivo di Pompeo. Prese così una decisione completamente nuova: la casa doveva essere spoglia. Soltanto i mobili essenziali dovevano rimanere alla vista, tutto il resto doveva sparire. L'armadio era proprio grande, e avrebbe potuto servire. L'aprì. Conteneva mille cose buttate là dentro alla rinfusa, per cui, per poter utilizza­re al meglio lo spazio, era necessario svuotarlo.

In poco tempo, al centro della stanza, c'era una montagna di oggetti: abiti, pentole, libri, scarpe, pal­loni, fanali di bicicletta, forchette, vasi per fiori, saponette, carta igienica, cuscini, un ombrello, tappeti, racchette da tennis, due chitarre, un materasso, la scopa. Finalmente c'era qualche risultato: l'armadio era vuoto e aveva trovato la scopa. Ora si trattava di mettere tutto, a parte la scopa, due sedie e un tavolo, il letto e il fornello, dentro l'armadio. E così comin­ciò, pezzo per pezzo, a trasferire la montagna dal centro della stanza all'interno dell'armadio.

In pochissimo tempo la stanza era vuota. L'armadio invece era strapieno e non fu certo facile richiuderIo. Per maggior sicurezza appoggiò una sedia contro le ante, vi si sedette e guardò compiaciuto la stanza svuotata. Faceva un effetto strano, la stanza così, e, se avesse avuto il tempo di riflettere, si sarebbe chiesto dove fosse capitato e sarebbe forse anche uscito a control­lare che sulla porta ci fosse proprio il suo nome.

A questo punto afferrò la scopa e cominciò a pulire il pavimento. Dapprima la polvere, sollevandosi lievemente, si dirigeva verso la finestra sofferman­dosi a volteggiare sui raggi di sole che entravano. Poi, lentamente, la polvere cominciò ad addensarsi, facendosi così fitta da impedire ai raggi del sole di entrare. Senza che gli riuscisse più di vedere il pavimento, continuava a dare vigorosi colpi con la scopa che facevano uscire dalla finestra fitte e frenetiche nuvole grigie come il fumo.

   Dopo un po' non si vedeva più nulla.

    Quando, finalmente, nel punto della stanza più lontano dalla finestra, la nebbia cominciò a diradarsi, sbucò il fornello. Michele posò la scopa per dedicarsi alla preparazione del pranzo. Era d'ottimo umore e si mise a cantare.

 

"Ho in tasca tutta la paga,

 tutta la paga di un anno.

Dammi un tuo bacio, ragazza,

 ed una pinta di rum".

 

Si fermò per riprendere fiato e poi riattaccò:

 

"Ho in tasca tutta la paga,

 tutta la paga di un anno.

 Dammi un tuo bacio, ragazza,

ed una pinta di rum ".

 

Ancora una breve sosta e poi:

 

"oh, oh, oh,

ed una pinta di rum".

 

E ad ogni "oh" picchiava una gran calcagnata sul pavimento.