Il filo di ... Ariandersen

Pinin Carpi

Gioco, fantasia, invenzione, per soddisfare le curiosità dei lettori intelligenti. La carica forte di un autore che ha scelto il "partito dei bambini"

su Rosso Scuola - maggio 1991

                                                                                                                     

   ***************

“Guardatemi, io vengo col seguito! .:..­ disse l'ago da rammendo, e si tirò dietro un filo lungo, che però non aveva nodo". Di questo ago Andersen dice subito che aveva sentimenti delicati, e che

 per questa ragione si sentiva più che altro un ago da ricamo. A me sembra che avrebbe dovuto piuttosto parlare di spocchia, di millanteria, di vanagloria, però non ho alcuna intenzione di infierire su un povero ago, anche perché il fatto di trovarsi in un racconto di Andersen - che era un bravissimo narratore - è di per sé una condizione che assicura una dose robusta di amarezze.

Quello che mi interessa invece è che, anche nella vita di un ago, è decisiva la questione dei nodi; e poi il fatto che, a trascurare i nodi, si può forse finire soltanto col perdere il filo - il che non è senza conseguenze, come tutti ben sanno, soprattutto poi se nei paraggi Arianna non c'è. L'Arianna del mito, beninteso, quella che diede a Teseo il filo che gli consentì di non perdersi nel labirinto, non l'Arianna di una poesia di Pinin Carpi contenuta in Nel bosco del mistero (Einaudi 1986), che è soltanto una "bambina di panna / che sta in braccio alla sua mamma / e canta tutta tutta tutta / questa bella o brutta canzone". Soltanto una bambina. Che canta. Soltanto? Come se fosse impresa da poco essere una bambina e cantare. E come se fosse sufficiente avere tra le mani un filo, come se bastasse riuscire a tornare indietro; e come se anche per cantare non fosse necessario un filo. E allora direi che forse anche il filo di Arianna non basta, soprattutto perché "vivere è una faéccenda molto pericolosa" (J. Guimaraes Rosa, Grande Sertao, Feltrinelli). Più utile, allora, del filo di Arianna, mi sembra senz'altro il filo di Andersen. Un filo che consente sì di ritrovare la strada, ma soprattutto di individuarne una nuova, aperta in parte dalla scoperta della necessità di non trascurare i nodi che emergono da L'ago da rammendo di Andersen, ma soprattutto da quell'altra straordinaria vicenda di "sartoria" che è I vestiti nuovi dell'imperatore.

Nei Vestiti nuovi dell'imperatore il potere si svela in tutta la sua stupida essenza e nessuno - né chi il potere detiene, né chi al potere è incondizionatamente acquiescente, né chi del potere ha soltanto paura e teme forse di essere più in difficoltà ad essere libero e pensante che sottomesso - nessuno osa dire che quel vestito è fatto di un tessuto che semplicemente non esiste. Nessuno, tranne un bambino; cioè chi con il potere non ha nulla a che fare, essendone nient'altro che la negazione. Un bambino, cioè chi con il potere non può che avere "vincoli puerili" - e il fatto che poi l'infanzia abbia fine e si inneschino con il potere vincoli non più puerili sarà anche qualcosa che porta a sopravvivere e pure a vendicarsi, ma è cosa che si connota come tristezza infinita perché altro non è che il perpetuarsi di oppressione e calcolo, di cancellazione e silenzio.

Ma è forse preferibile sopravvivere strisciando? E’ forse preferibile aderire mollicciamente alle gelide figure delle colonne che reggono e sostanziano il Palazzo? Ognuno può rispondere come vuole; a me qui preme soltanto dire che è un problema di filo, cioè un problema politico e culturale e etico. Seguire il filo di Ariandersen probabilmente porta anche alla consunzione, ma è preferibile un meschino sopravvivere o il perseguimento tenace della dignità? È un problema di filo.

C'è una bellissima affermazione di Ursula Le Guin in Il linguaggio della notte, Editori Riuniti 1986, che mi piace riportare qui: "Ci sono state grandi culture che non usavano la ruota, ma non ci sono state culture che non narrassero storie". Probabilmente Pinin Carpi la condivide perché le sue storie sono numerosissime, soprattutto perché ogni suo lavoro è connotato principalmente come una storia: i romanzi, i racconti, le poesie, le ballate, i poemetti, le ninnenanne, le cantilene, le illustrazioni, i lavori di divulgazione (dal "manuale" Alla scoperta dell'arte, Mondadori 1983, agli otto volumi della non-enciclopedia Il mondo dei bambini, Emme-UTET 1976 - 1980). Tutte storie, e storie dentro le storie, con decine e decine di personaggi, seguiti assiduamente o incontrati per caso, in forte evidenziata presenza oppure soltanto evocati, a camminare camminare per il vasto mondo oppure accucciati in un prato tra i rami sui tetti nel mare nell'ovunque a ridere dormire apparire sparire cantare suonare mangiare guardare riempire il proprio e l'altrui cammina cammina. Non so quanti possano essere, tra umani - soprattutto bambini -, animali - soprattutto gatti -, maghi, fate, folletti e quant'altro. Non lo so e non ha alcuna importanza. E probabilmente il numero dei personaggi delle storie di Carpi è cosa che può interessare teste come quelle dell'uomo d'affari del XIII capitolo del Piccolo principe di Saint-Exupéry, che contava le stelle per possederle, e voleva possederle per essere ricco, e voleva essere ricco per comperare altre stelle; oppure. a qualcuno che guardando in un caleidoscopio si metta a contarne le immagini.

Intanto direi che non è il caso che mi sia accaduto di pensare alle stelle e al calèidoscopio, evocazioni che forse possono dire qualcosa di significativo rispetto alla luminosità e al profluvio d'immagini. Questo è sicuramente un nodo, in Carpi. Tantissime immagini, in movimento continuo, distribuite a pioggia, senza temere alcuna possibile dissipazione. E cosi le sue storie si configurano come in dono, come un gesto generoso preoccupato soltanto di non essere inadeguato, di non essere esile, come il darsi gratuito e incondizionato di chi dona soltanto per amore. Perché questo, mi sembra, è il nodo decisivo del lavoro di Carpi, il filo davvero sotteso: il donare - gesto, questo, che presuppone un destinatario nei confronti del quale c'è investimento affettivo, c'è rispetto, c'è desiderio di contribuire a conseguire la soddisfazione del desiderio.

A me sembra che Carpi possa essere definito un autore politico, in quanto ha individuato i bambini come propri interlocutori, soprattutto perché disponibili sempre ad allargare il terreno del possibile e del desiderabile, perché esseri mossi dall'incontenibile voglia di sapere e di fare, di frugare, di continuare a cercare; e però tutto questo, questa carica forte, in esseri completamente privi di potere.

Mi sembra che Carpi abbia scelto senza esitazioni il "partito" dei bambini, del loro essere senza potere, del loro desiderio di desiderare, e abbia impostato il proprio lavoro a far sì che i bambini possano trovarvi ascolto e rispetto e attenzione, e attenzione ai loro desideri, e ricerca di strumenti volti a soddisfarli. È anche per questo, direi, che ha scelto di scrivere usando un linguaggio molto parlato, un linguaggio non banale e non preclusivo di tempi e di luoghi ma in ogni caso rassicurante, familiare", vicino, riconoscibile e vivo.

Senza esibire nulla, ma ben evidenziando percorsi e sviluppi ed esiti: e ben evidenziando che gli esiti sono importanti e positivi, ma tanto per il fatto che portano ad acquisire sicurezza e determinare equilibri quanto per il fatto che da lì si può ripartire. Perché ogni storia finisce, però "la storia non finisce qui, non solo perché lì intorno cominciarono a crescere tanti alberi che dopo un po' il lago si trovò in mezzo a un bellissimo bosco, ma anche perché le storie, se si vuole, continuano sempre. Basta pensarci un po' e ci si accorge che succede proprio cosi. Questo è quello che conta di più. (La banda del Cane Randagio, Nuove Edizioni Romane 1989). E quello che sente anche Mauro, il protagonista di Il mago dei labirinti (Giunti 1990), il quale, dopo aver camminato camminato per mille e un ovunque e per mille e un altrove e avere conosciuto "dei folletti e degli gnomi, degli elfi e delle silfidi, delle fate e delle streghe, delle sirene e delle ondine, dei maghi e degli spiritelli e poi dei fruncelli e degli strarli, dei custolini e dei trumpelli, delle scorosticontine e delle balzerotte, delle svillere e dei volpitelloni" - oltre, naturalmente, a mille e un personaggio di varia umananimalità - esce dai giardini della notte. E, "uscendo da quei giardini il Mauto non era felice solo perché aveva scoperto tante cose nuove, ma anche perché sapeva che avrebbe continuato a esplorare tanti posti mai visti, fra gente mai conosciuta, e avrebbe svelato tanti altri misteri arcani e proibiti, nascosti e occulti, enigmatici e clandestini, inaspettati e incredibili". Si cammina e cammina, e si torna, e si vuole soltanto ripartire e tornare e ripartire e tornare, senza fine. Sempre essendo se stessi ma sempre cambiati, come il sole. "Eccoli li, il Mauro e Ulisse, il bambino e il leone. Sono usciti dai giardini della notte entrano in un giardino dove il sole è appena spuntato. E lo stesso sole di ieri, però è un sole nuovo, la sua luce è tutta nuova, mai vista. Ed è una luce bellissima".         .

Stanno arrivando a casa, Mauro e il leone Ulisse, e davanti a loro c'è un labirinto. Lo supereranno, non possono esserci dubbi, ma non soltanto perché è "quello che ha immaginato, inventato, disegnato, costruito lui, il Mauro, e che conduce alla casa più bella di tutte, la sua casa, quella da cui senza farsi vedere da nessuno una mattina era partito con il leone per andare in giro per il mondo". No, non solo per questo, e nemmeno soltanto perché sappiamo da un libro precedente (Mauro e il leone sulla cima del mondo, Mondadori 1986) che la sua costellazione preferita è la Corona di Arianna.

 

LA STRADA DEI BAMBINI NON PORTA ALLA MORALE

Intervista a Pinin Carpi

Il suo lavoro è molto articolato: racconti, romanzi, poesie, illustrazioni. Comincerei allora da quello che è l'elemento sicuramente unificante di tutto questo: il raccontare storie.

«Pensando al tempo trascorso, sempre più scopro che il raccontare storie ha permeato la mia vita. A nove anni ho cominciato un romanzo, Crapotti e Cigolini, e poi ho trovato un'annotazione, fatta quando avevo ventun anni, in cui dicevo di avere scritto diciotto romanzi. E una cosa sbalorditiva anche per me: ho cercato di farmi venire in mente qualcosa di più preciso, e mi sono ricordato che c'era Perduta nella valle,. La città di cristallo, Oltre l'ombra, E questo vi conforti (questo titolo proviene da un verso di Leopardi), c'era Notti d'inverno, che consideravo una cosa molto bella. Ho scritto anche tante poesie».

 Non ha cominciato subito, però, a pubblicare libri per bambini.

 «Ho fatto il liceo classico e poi mi sono iscritto ad architettura. L'architettura mi appassionava; per un certo periodo mi ha appassionato anche la scultura; e poi l'illustrazione: nel 1941 ho illustrato un libro di Attilio Gatti. Sono stato partigiano, e sono stato in carcere; anche mio padre è stato in galera, è stato a Mauthausen; mio fratello lo hanno ammazzato a Grossrosen. Il dopoguerra è stato molto duro. Facevo il giornalista. Il primo lavoro è stato nell'ufficio stampa del CLNAI; poi sono stato al Touring Club, dove ho fatto dei volumi sulle regioni italiane; e poi all'ufficio stampa dell'ACI di Milano - e pensare che non ho la macchina e non guido... Ho pubblicato, anche nelle riviste più inconsistenti, diversi racconti non per bambini. I primi tentativi per bambini sono andati tutti male: ho cominciato a 14 anni, portando una storia al Corriere dei Piccoli, accompagnato da Bucci, un pittore che collaborava al Corriere della sera. Però la mia storia non è stata accettata. il Corriere dei Piccoli era molto moralistico e "educativo", anche se pubblicava cose molto belle, Mio Mao, Fortunello, le cose di Tofano ...>>

 Su Tofano vorrei che si fermasse un momento. Mi sembra che ci siano dei legami...

 <<Tofano l'ho amato prima di tutto per Bonaventura, per il suo segno straordinariamente moderno, sintetico; erano bellissimi anche i suoi versetti: "Qui comincia l'avventura del signor Bonaventura ..." Scriveva con una lingua molto viva e ricca; e poi era un grande attore, di lucidità e bravura straordinarie anche da vecchio - e pensare che era un attore del periodo di Zacconi, di tutti quei tromboni. Lui invece aveva un'incredibile finezza, completamente privo di enfasi e di birignao. Tofano era straordinario perché non solo inventava le storie, ma aveva anche una grande inventiva verbale, giocava con le rime, con le parole inventate; e illustrava. Secondo me, dopo Collodi, è lui il più grande scrittore per bambini. Il suo lavoro è importante perché non ha nulla di moralistico; Tofano non aveva intenzioni "istruttive", "educative", Aveva un'apertura sulla fantasia, l'invenzione, il gioco; non voleva imporre una morale. Per me questo è stato un grande insegnamento; ed è uno dei fondamenti del mio lavoro. lo non voglio fornire una morale. Certo, mi importa molto del bene e del male, ho dei principi, e questi necessariamente entrano nelle mie storie, ma non scrivo per imporli o .trasmetterli».

Un messaggio troppo esibito i bambini non lo apprezzano. Possono anche condividerlo. ma ne sentono la forzatura, ne sono infastiditi.

 «È vero, i bambini lo rifiutano. Noi abbiamo delle esigenze profonde, che richiedono anche incosciamente di essere soddisfatte: questo appagamento i bambini possono trovarlo, secondo me, nelle fiabe. A me sembra di avere individuato nelle fiabe un processo: le fiabe nascono da tragedie il cui racconto con il passare del tempo si è modificato anche per alleviare la sofferenza che conteneva e provocava. Le tragedie si raccontano, e si raccontano" per risolvere un problema angoscioso. Le fiabe hanno il lieto fine per questo.

 Diceva Calvino che le fiabe sono vere, che sono il "catalogo dei destini ..."

 «Si, e secondo me sono anche qualcosa di più, perché appagano tutte le esigenze essenziali. E non è un caso che siano diffuse in tutto il mondo; essendo i problemi comuni a tutti, servono a esorcizzare le angosce di tutti».

Quali sono le ragioni del suo scrivere per bambini?

     «Perché i bambini mi piacciono. Non scrivo per ragioni educative. Mi piace raccontare ai bambini, raccontare loro storie che li divertano e li spaventino anche. Questo non certo per fare loro paura, ma perché le paure le hanno dentro e hanno bisogno di esorcizzarle, di smaltirle. Allora è giusto raccontare storie che fanno paura, ed è giusto e necessario che abbiano il lieto fine. Lieto fine non significa che tutto va a finire bene, anzi, spesso è più vero il contrario; significa invece che la vita vale la pena di essere vissuta.

I bambini sono al di fuori del tempo e dello spazio: per loro il tempo è ciclico, come il tempo contadino, delle stagioni, delle feste che ritornano; per quanto riguarda lo spazio, quando un bambino viaggia non attraversa una regione ma percorre una strada. Per un bambino la città è la sua casa, la sua strada, i suoi amici. E poi i bambini sono curiosi, ed è solo quando si è curiosi che si è vivi - e pensare che ho visto degli albi per insegnare ai bambini a non essere curiosi ... Io credo di avere capito una cosa: che in realtà la valutazione dell'importanza, dell'interesse, dell'intelligenza, della sensibilità, di quello che si fa, grandi o bambini, è tutto un problema di potere. Il bambino, che non ha nessun potere, è incapace, stupido, non capisce niente; e invece le scoperte della scienza ci dicono che nel bambino c'è tutta la potenzialità dell'intelligenza completa - che poi naturalmente deve essere attivata, perché ai bambini manca la conoscenza, mancano i rapporti tra 1e varie esperienze.

lo ho scritto pensando ai miei figli, cercando di scrivere qualcosa che corrispondesse ai loro desideri. In questo modo ho scoperto una cosa importante, che è anche diventata una cosa per cui ho dovuto combattere: il diritto e la necessità di usare il linguaggio che uso parlando, compresi gli errori. Se io, milanese, dico "il Mauro", devo scrivere "il Mauro". Non uso un linguaggio povero o primitivo, ma quello che uso parlando, anche perché questo è l'unico che i bambini conoscono davvero e col quale si sentono a loro agio. Per il miei figli ho sempre inventato, raccontato e scritto delle storie, e verificavo con loro quello che funzionava e quello che invece andava tolto o cambiato. Poi ho cominciato ad andare nelle scuole, e inizialmente avevo un po' paura; ma anche lì verificavo quello che funzionava e quello che invece non andava. E ho capito sempre più che quello che era necessario era il raccontare storie che rispondessero ai loro desideri e fossero parlate».

 Per quanto riguarda la nostra lingua parlava di Collodi e Tofano. E in aree linguistiche diverse?

 «Secondo me il primo grande scrittore per bambini è stato William Blake, che ha scritto i Canti dell'innocenza, che sono una meraviglia. Ho amato moltissimo Andersen: rileggendolo ho ritrovato cose straordinarie, insieme ad altre inaccettabili e meno adatte ai bambini. Per esempio, quando parla di bambini buoni e bambini cattivi io non sono per niente d'accordo: i Bambini non sono né cattivi né buoni, possono diventare gli uni o gli altri a seconda degli adulti che fanno loro da modelli. Altri autori molto amati sono quelli della letteratura inglese, da Lear a Carroll a Barrie».

 E relativamente all'attività di pittore e iIIustratore? Quali amori e maestri?

 «Sicuramente Rackham, Dulac, Dorè. Ho sempre avuto una grande passione per gli illustratori inglesi, ma soprattutto per Arthur Rackham. Ho amato moltissimo la pittura cinese e Broeghel, con quelle grandi scene fitte di cose - mi ha sempre incantato. E poi, soprattutto per il fatto di essere figlio di un pittore, ho assorbito un'infinità di immagini. Vedevo continuamente pittori, andavo nei loro studi, alle mostre, alle gallerie. Avevo dodici anni e mi hanno portato a Siena, dove ho visto i resti smozzicati di un'opera di Jacopo della Quercia e me ne sono innamorato. Da tutto questo è derivata anche l'idea della collana, che ho inventato, "L'arte per i bambini" della Vallardi.

 Lavori in corso e prossime uscite?

 «Uscirà una raccolta intitolata La zia Corsara all'osteria e altre storie insensate; è una serie di storie di nonsense che pubblicherà Giunti. Poi c'è un romanzo, Il romanzo della magia, che è illustrato da fotografie; è una storia irlandese, nata da un viaggio in Irlanda con mio figlio e dalle fotografie che in quel viaggio mio figlio. ha fatto».

 Anche Le lanterne degli gnomi proveniva da suggestioni irlandesi; e complessivamente, nel suo lavoro, si avverotono riferimenti nordici.

 «Nella mia infanzia e nella adolescenza ho amato moltissimo Andersen e tutta la letteratura nordica. Da ragazzo, per me, Dickens era il più grande scrittore del mondo. Quando ho letto, a tredici anni, Oliver Twist, sono rimasto sbalordito. Leggevo ai miei amici Alice nel paese delle meraviglie. Il versante nordico mi ha affascinato molto. Devo dire che mia madre, da ragazza, con sua madre e sua sorella, traduceva una rivista inglese, forse di moda, ed è sempre rimasta molto legata alle cose inglesi, aveva molti libri inglesi. E io gli inglesi li ho anche amati molto perché erano odiati dai fascisti. Poi ho amato molto Kipling, Chesterton, Stevenson; e i poeti, da Shakespeare a Shelley a Keats a Tennyson a Wordsworth, Browning soprattutto, fino ai più recenti, Yeats, Eliot».

Non è prevista un'altra raccolta di versi?

 «Materiale ne ho tanto, ma il problema vero è il tempo. Vorrei anche dedicarmi alla saggistica. Ho molto materiale, molti appunti, per esempio sulla fiaba, o sugli amici invisibili dei bambini. I bambini sanno benissimo che questi amici invisibili non esistono, ma ne parlano continuamente e se ne servono come se esistessero davvero. Secondo me è un po' come l'opera d'arte: è una realtà, anche se tutti sanno che non esiste. Un dipinto è carta sporcata di pastello, però quando si guarda è una realtà vitale, molto importante. Questa capacità dei bambini di creare con la mente delle realtà che non esistono, sapendo che non ci sono ma vivendole come se esistessero, secondo me è qualcosa come la nascita della necessità dell'arte».