| Cammina cammina, in cerca di avventure per la nostra felicità L'opera saggistica e narrativa di Beatrice Solinas Donghi su Rosso Scuola gennaio-febbraio 1991 | 
                                                                                                                     

| *********************** Se dicessi d'avere, a tutt'oggi, molto ma molto errato, direi soltanto il vero: pertanto lo dirò. Ma il dire presuppone - o non lo presuppone, ma poi ci incappa dentro - il farsi intendere, e allora 
  entrano in gioco mille cose e finisce che poi
              cascano gli asini. Dato
              che tengo molto all'incolumità degli asini e che tra quelle mille
              cose so bene esserci anche l'esistenza di benevoli e malevoli, la
              secca verità non sarà sufficiente. Infatti, se dico d'avere
              molto errato, subito e ciecamente i benevoli mi riterranno
              erratico, i malevoli erroneo. Il vero invece è questo: hanno
              ragione entrambi, ed entrambi hanno torto, avendo io molto errato
              erratico ed erroneo. Del mio essere erroneo, però, qui vorrei
              solo tacere -ché ci sono altri luoghi più acconci alla bisogna -
              e vorrei dire
              invece dell'errare erratico. Nessuno si spaventi: non parlerò dei
              miei viaggi, anche perché non mi riesce difficile riconoscermi,
              ben più che nel ruolo di avventuriero attivo, in quello di
              avventuriero passivo, «ruolo che consente il piacere di
              avventure meravigliose senza che ci si debba sottoporre agli
              inconvenienti e alle sanzioni divine e sociali che esse comportano»,
              come spiega Pierre Mac Orlan nello squisito Piccolo manuale del
              perfetto avventuriero, Tusitala 1986. Il
              mio stato di avventuriero passivo non mi ha però impedito, per
              diverse ragioni che qui non interessano, di errare parecchio,
              cambiando piuttosto spesso abitazione. E così m'è accaduto di
              avere numerosi vicini: generalmente, a prescindere da certi
              ululati che si regalano in famiglia, dentro i loro appartamenti,
              persone educate e corrette. Quelli attuali, per esempio,
              incontrati per le scale salutano, e sono anche in grado di dire se
              quel giorno faccia molto caldo oppure molto freddo, quanto abbiano
              impiegato a parcheggiare o, nei giorni di pioggia, quanto piova. E
              casi cambierò casa ancora; non mi piace avere cattivi vicini.
              Perché questi altro non sono che tali: dice infatti Peter Bichsel
              che un buon vicino è uno che racconta qualche cosa, al
              contrario di uno che dica qualche cosa. Si potrebbero fare,
              a questo proposito, molti discorsi, si potrebbero dire molte cose;
              io mi limiterò a ricordare quale forza vitale indistintamente ci
              sia nel narrare se Shaharazàd, per mille e una notte, salva la
              propria vita raccontando; mi limiterò a ricordare questo e a
              raccontare una storia. È una storia chassidica, ricordata da
              Gershom Scholem in Le grandi correnti della mistica ebraic,. (Il
              Saggiatore 1965), che trascrivo qui con le parole che Scholem
              affermava di avere riportato dalla viva voce di Shemuel Yosef Agnon:.
              «Quando Bàal Shem [che fu il mistico fondatore del chassidismo)
              doveva assolvere un qualche compito difficile, qualcosa di segreto
              per il bene delle creature, andava allora in un posto nei boschi,
              accendeva un fuoco, diceva preghiere, assorto nella meditazione: e
              tutto si realizzava secondo il suo proposito. Quando, una
              generazione dopo, il Maggid di Meseritz si ritrovava di fronte
              allo stesso compito, riandava in quel posto nel bosco, e diceva:
              "Non possiamo più fare il fuoco, ma possiamo dire le
              preghiere"- e tutto andava secondo il suo desiderio. Ancora
              una generazione dopo, Rabbi Moshè Leib di Sassow doveva assolvere
              lo stesso compito. Anch'egli andava nel bosco, e diceva: "Non
              possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete
              meditazioni che vivificano la preghiera; ma conosciamo il posto
              nel bosco dove tutto ciò accadeva, e questo deve bastare". E
              infatti ciò era sufficiente. Ma quando di nuovo, un'altra
              generazione dopo, Rabbi Ysra'èl di Rischin doveva anch'egli
              affrontare lo stesso compito, se ne stava seduto in una sedia
              d'oro, nel suo castello, e diceva: "Non possiamo più fare il
              fuoco, non possiamo dire le preghiere, e non conosciamo più il
              luogo nel bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la
              storia". E il suo racconto da solo aveva la stessa efficacia
              delle azioni degli altri tre». Un
              pozzo nel mondo. C'è
              un pozzo, nel mondo, e ha pure una certa capienza, al quale si
              potrebbe tutti quanti attingere per fornirsi di strumenti per
              affrontare qualche compito difficile e avere di che salvarsi la
              vita per ben più che mille e una notte. È l'insieme, sterminato
              davvero, di tutte le storie, d'ogni tempo e paese. Per esempio,
              non dice proprio nulla ad arabi e israeliani a proposito del loro
              essere in conflitto il fatto di avere nei rispettivi patrimoni
              culturali le due storie che qui ricorderò? In
              un racconto popolare arabo a Giuha viene rubato l'asino. Allora si
              mette a correre e gridare minacciando che, se non gli verrà
              restituito,<<"farò come ha fatto mio padre!"
              Spaventati, i ladri stavano per restituire l'asino, ma uno di loro
              domandò: "Che cosa ha dunque fatto tuo padre?" "È
              semplice" rispose Giuha "ne ha comprato. un altro'>>(Racconti
              popolari arabi, a cura di E. Console, C. Gutermann e S.
              Villata, Mondadori 1985). E in una delle Storielle ebraiche (a
              cura di F. Folkel, Rizzoli 1988) si racconta che a un mercante
              ebreo viene rubato il cavallo mentre si trova in una locanda.
              Quando scopre il fatto si mette a gridare: «"Guai a voi
              miserabili (...) Mio padre mi ha insegnato che cosa fare in questi
              casi". Il vecchio Mendel, terrorizzato, gli si avvicina e gli
              chiede: "Ma che cosa ha fatto suo padre?" "Che cosa
              ha fatto? Se ne è andato a piedi"». Significherà
              pur qualcosa il fatto che esistano, nella storia delle storie di
              due entità che cercano di distruggersi a vicenda, ed esistono in
              entrambe, due situazioni immaginative, memoriali, narrative,
              comportamentali, emotive, sociologiche, culturali, tanto vicine.
              Troppo semplice? Forse si, ma proprio questo dovrebbe costituire
              l'incentivo decisivo a tenerne conto. E invece mica se le
              raccontano le loro storie; non si raccontano nulla: pessimi
              vicini. Questi
              «esempi» potrebbero anche essere come qualche cosa che
              equipara il raccontare a qualche altro agire umano e anzi qualche
              volta a questo «altro agire» si sostituisce. Lascio a chi voglia
              farlo di prendere alla lettera la faccenda; l'intento mio è
              invece d'altro tipo. L'intento mio è quello di sottolineare
              quanto utile potrebbe derivare dal praticare il «dilettevole»,
              nella convinzione che, come diceva Leopardi; «il dilettevole sia
              più utile che l'utile». Ma, se il raccontare può salvare la
              vita, mutare l'essenza dei rapporti tra vicini, provocare il
              sospetto di una possibile profonda fraternité tra coloro
              che passano la vita a perseguitarsi, perché non assumere
              del raccontare i «luoghi privilegiati» -
              le storie -
              prima di
              tutto in quanto storie, racconti di vicende, luoghi di affascinato
              incantamento? Beatrice
              Solinas Donghi, una quindicina d'anni fa, ha scritto un libro
              molto bello e molto importante, La fiaba come racconto. In
              questo libro, limpido e profondo, giustamente polemico e
              appassionato, Solinas Donghi ha rivendicato la necessità di
              restituire alla fiaba il maltolto. Troppo a lungo, ripetutamente,
              con reiterata ostinazione, ci si è serviti delle fiabe per
              cercare in esse «spiegazioni» che tutto consideravano tranne la
              loro essenza prima, il loro essere appunto innanzitutto un
              racconto; con il risultato di ridurre la fiaba a chiave
              interpretativa unidirezionale: arrivando così a un impoverimento
              oggettivo, a fronte della prodigiosa ricchezza di possibilità di
              lettura che il racconto in sé contiene e che ognuno deve trovare
              da sé, se lo vuole.   Un'eco
              creativa Contro
              queste impostazioni Beatrice Solinas Donghi non ha però
              scritto soltanto quell'importante libro di saggi -
              oggi purtroppo non
              più disponibile -; il suo discorso si era avviato in precedenza
              ed è proseguito fino a oggi attraverso le sue storie, le sue
              fiabe e i suoi romanzi. Le sue narrazioni, mai ispirate ad una
              finalità dimostrativa di messaggi più o meno esibiti, si
              sviluppano all'intemo di una frequentazione assidua e lieve dei
              luoghi canonici della fìaba, soprattutto a partire dalla
              tradizione popolare. Una frequentazione assidua e lieve,
              profondamente assorbita, assimilata, è come rilanciata in una
              continuità che si innesta su temi e linguaggi
              senza travisamenti e nello stesso tempo con sviluppi -
              di temi e di
              linguaggio - che
              non ne fanno una stanca ripetizione ma
              al contrario qualcosa come una sensibile eco, un'eco che
              non si contenta di rinviare il già emesso da altri. È un po'
              come se si trattasse di un'eco che alla riproduzione di un suono
              ricevuto accompagni una propria voce, di quel suono
              mantenendo integro il timbro ma nello stesso tempo rielaborandolo
              e restituendolo rinnovato. Non si tratta di banali aggiornamenti
              di linguaggio, non si tratta di inserimenti di oggetti e
              personaggi dei nostri giorni; si tratta piuttosto di
              calibratissime vibrazioni, di sapienti spostamenti minimi, operati
              quasi con pudore ma con forza semplice e quindi vera. Si
              potrebbero prendere le fiabe di Beatrice Solinas Donghi e cercare
              in esse i riferimenti, i rimandi, le citazioni di luoghi,
              situazioni, temi e motivi della fiaba popolare; si potrebbe
              cercare in esse tutto questo e si scoprirebbe che molto ma molto
              resterebbe comunque ancora, elaborato con eleganza sottile, e con
              altrettanto sottile ironia. Questa
              impostazione di ripresa di motivi della fiaba tradizinale aveva
              avuto due felicissimi esiti nella Gran fiaba intrecciata e
              nelle Fiabe incatenate; ma anche nel recentissimo Le storie
              di Ninetta questa impostazione ritorna, cosi come ritorna il
              principio di fornire una serie di storie che, pur in piena
              autonomia e pienamente fruibili singolarmente, formano un insieme
              complessivo, una storia sì articolata in parti ma fortemente
              unitaria. E sostanzialmente succede un po' questo: si leggono le
              singole storie, e queste si rivelano piacevolissime e vive; ma
              leggendo l'intero libro si ha un ulteriore incremento di
              piacevolezza, dovuto al fatto che il legame fra le parti della
              storia è tanto lieve ma saldo da costituire di per sé
              un'attrazione. Quando,
              qualche anno fa, uscì Quell'estate al castello, il romanzo
              fu accolto evidenziando un felice ritorno del «romanzo per
              ra.gazzine». In effetti si tratta di un libro che si colloca in
              quel filone, con una precisa parentela con i romanzi che uscivano
              nella «Biblioteca dei miei ragazzi» della Salani. Si tratta però
              a mio parere di qualcosa di più: un romanzo di ragazzine,
              ricco di avventure e vicende raccontate con ironia leggera, con la
              giusta dose di mistero e con un'attenzione alla dimensione della
              memoria che ne fa anche un utile strumento di conoscenza di un
              tempo diverso dal presente. Questo fa si che il romanzo sia molto
              fruibile non soltanto dalle «ragazzine» ma anche dai ragazzini e
              dagli adulti. Perché queste ragazzine non sono sdolcinate eroine,
              sono piuttosto personaggi «veri», forti del disponibile e
              partecipe e allegro e doloroso sentire. Allora anche le avventure,
              tante e avvincenti, si rivelano essere poi qualche cosa di più;
              si rivelano essere l'accompagnamento e il contorno di altre
              avventure, le avventure interiori - e allora, forse, è anche
              necessario che di ragazzine si tratti, essendo queste
              fornite di un di più di sensibilità rispetto agli adulti
              e ai ragazzini -. E questo non vale soltanto per le protagoniste
              di Quell'estate al castello, ma anche per Peonia e Fenice,
              ne La figlia dell'Imperatore. E non solo; anche Ninetta, la
              protagonista di Le storie di Ninetta, è un personaggio che
              appartiene al piccolo popolo delle bambine avventurose e sagge,
              disponibili e quietamente ma tenacemente determinate. Delle
              bambine che si sanno stupire e appassionare, e perseguono con
              costanza stupori e passioni; delle bambine serie e sorridenti che
              capiscono subito che tipo sia l'Uomo Selvatico e sanno
              interpretare la sua ostica lingua; delle bambine gentili e tenaci
              e che proprio per questo vengono scelte dalla Gattaferra per
              svelare loro la propria caratteristica di gatta parlante e per
              aiutarle contro le insidie del gerolamese, la perfida trappola del
              rude zio Gerolamo. Delle bambine, insomma, che camminano
              camminano, e vivono avventure per la felicità degli
              avventurieri passivi. I quali errano molto, erratici ed erronei e,
              pur continuando probabilmente a ripetere errori e farne pure dei
              nuovi, sarebbero felici di fermarsi in una casa in cui trovare un
              ottimo vicino come Beatrice Solinas Donghi, narratrice di storie. |