| Strana gente 
 su ècole aprile 1993 | 
                                                                                                                     

| *********************** Goffredo
  Fofi Strana
  gente. 1960. Un
  diario tra sud e nord, Donzelli, Roma 1993, pp. 148, L. 16.000. 
 
 Tutto
  il caleidoscopico lavoro di Fofi  dalla critica cinematografica agli
  interventi sulla letteratura, dalla consulenza editoriale alla trasmissione
  orale di libri e film, dal lavoro radiofonico ai progetti di intervento
  sociale, dalle riviste che ha diretto a quelle che dirige - è caratterizzato
  sempre, in tutte le sue articolazioni, da una forte e profonda dimensione
  pedagogica. Ma
  sarebbe anche potuto succedere che quell' "acqua che salta e che
  balla" che Fofi è, entrasse nella scuola; nella scuola o in qualche
  altra "istituzione educativa", se queste però fossero mai state
  qualcosa di più associabile alle sorgenti che non alle paludi - dalle quali,
  quand'anche non malariche, arriva nel migliore dei casi nient'altro che uno
  scomposto gracidar di ranocchi, i quali per di più solo molto raramente sono
  principi vittime d'incantesimi, e qualora magari lo siano patiscono non poco
  la penuria di belle ragazze di sconfinato amore. Di
  quella possibilità, e del beneficio che se ne sarebbe avuto, fornisce ora
  qualche prova esplicita questo diario del 1960, che registra anche
  un'esperienza di attività di assistenza sociale e di tirocinio che Fofi
  svolse in quell'anno presso una clinica neuropsichiatrica di Roma. Attività
  che non nasceva a caso, ma faceva séguito agli studi magistrali e al lavoro
  in Sicilia con Danilo Dolci. Quest'ultimo compare ripetutamente nelle pagine
  del diario di Fofi, e vi compare per prenderne sempre più le distanze, quasi
  a diventare una sorta di modello da non imitare. Quella di Dolci non è certo
  però la sola figura ricorrente del diario; innumerevoli altre - e di
  abissalmente diverso spessore - ne percorrono le pagine, ed è proprio da
  queste presenze che mi sembra si potrebbe partire: ne emergerebbe una apertura
  illuminante non solo su quell'anno cruciale che è stato il 1960, ma anche o
  soprattutto sui suoi più immediati dintorni e sulle onde e ombre che l'hanno
  attorniato in più vasta estensione. In
  quell'anno, in quegli anni, Fofi ha percorso le tante Italie dell'Italia
  dell'immigrazione meridionale, del centrosinistra imminente, degli operai
  uccisi dalla polizia, dell'elettrochoc, delle istituzioni totali, dell'agonia
  contadina, dell'avvento del benessere, della perdurante dignità
  sottoproletaria, della decadenza proletaria, dell'incubo atomico. Ha percorso
  queste Italie mosso dal bisogno e dal desiderio di fare e capire, di essere e
  cambiare, dentro le speranze e i dubbi consentiti o generati - tanto gli uni
  quanto le altre - dalle pesanti eredità e dagli incombenti abbagli dei
  "miracoli". Inoltre Fofi ha percorso queste Italie da osservatore
  privilegiato, confrontandosi con interlocutori come Aldo Capitini, Norberto
  Bobbio, Ernesto De Martino, Ada Gobetti, Raniero Panzieri, Dina Bertoni Jovine,
  Franco Venturi, Giovanni Mottura, Aldo Pettini, Riccardo Lombardi, Manlio
  Rossi Doria, Angela Zucconi, Margherita Zoebeli, Raffaele Laporta, Gigliola
  Venturi, Vittorio Rieser... Ecco, a partire da questi nomi si potrebbe
  imbastire una riflessione davvero interdisciplinare su quel che è stato,
  avrebbe potuto essere, è, potrebbe essere, questo nostro galvanizzante e
  disperante paese. L'allora poco più che ventenne Goffredo - che si
  entusiasmava a leggere Tolstoj o a vedere un film di Bergman, che piangeva per
  la morte di Coppi e traeva conforto dalla lettura del Vangelo - scrutava e
  scrutava gli orizzonti, e frugava dentro di sé, a cercare un percorso che gli
  consentisse di chiarire il rapporto tra spinta etica e spinta politica, cioè
  che gli consentisse di continuare a cercare e cercarsi, senza attardarsi nel
  solco sì pacificante ma raggelante dei risultati. Scrutava e scrutava,
  insoddisfatto sempre e però mai rassegnato, e anzi sempre più radicato nel
  convincimento della necessità di fare e "essere utile" senza mai
  anteporre ai mezzi alcun fine. Certo,
  per usare il diario di Fofi nella scuola è necessario avere intenzione di
  smuovere quel macigno che è la pigrizia docente (e discente), pigrizia che si
  traduce nella richiesta di pappe pronte, e dolci - eppure bisognerebbe sempre
  tenere presente La pappa dolce dei fratelli Grimm -, non certo nella
  richiesta di uno strumento da cui partire per cercare altri strumenti, altri
  libri, altri orizzonti, strana gente. Da
  questo ricchissimo diario, dai suoi spesso frastornanti appunti di spostamenti
  e incontri, vorrei isolare almeno un paio di situazioni di particolare
  spessore (etico? politico? culturale? pedagogico?). Scrive Fofi alla data
  dell'undici marzo: "Ho dovuto accompagnare un bambino a fare
  l'elettrochoc e tenergli la mano prima e dopo, consolarlo, abbracciarlo,
  tranquillizzarlo. Con una vergogna infinita." E poi, più volte, annota
  di avere giocato con i bambini: di avere giocato con loro, non di averli fatti
  giocare. Potrebbe bastare anche questo soltanto. Perché non esiste pontefice-animatore che possa radicarsi e agire in profondità quanto chi scelga semplicemente di animarsi con i bambini. E non esiste scienza dell'educazione che valga quella mano, e quella vergogna. |