| Un maestro che racconta infanzie Angelo Petrosino: "restituire ai bambini il maltolto: rispetto, dignità, voce" su école - febbraio 1992 | 
                                                                                                                     

| *************** Petrosino scrive soprattutto di bambini; facendolo, però, non parla dell'Infanzia, ma, più saggiamente, racconta infanzie. E queste sue infanzie raccontate finiscono anche poi con il 
   risultare
              esemplari, ma per il semplice fatto che, qualora vengano tenute
              presenti nelle loro peculiarità, tutte lo sono. E risultano anche
              riassuntive, certo, ma anche questo solo perché tutte le infanzie
              in qualche modo lo sono, determinate in modo forte dal contesto
              culturale e storico in cui si trovano a essere.   Il
              raccontare infanzie di Petrosino a me sembra sempre supportato
              dalla consapevolezza
              dei rischi ideologici che si possono
              correre, di quanta falsa coscienza
              possa traboccare, di quanta retorica sia in agguato per chi
              percorra queste
              strade. Consapevolezze praticate -
              ed è questo che conta - ma anche esplicitate
              lucidamente, come in un articolo uscito su "Cooperazione
              educativa" a proposito del bellissimo libro di James
              G.Ballard, L'impero del sole (Rizzoli 1986). Scriveva
              infatti Petrosino: "Quando si parla, per mestiere o
              passatempo, di bambini, è buona regola guardarsi da ogni
              tentazione di definizioni perentorie. Anche se si è provvisti di
              tabelle e di statistiche, o di patenti
              che vorrebbero
              garantire la scientificità delle analisi e dei procedimenti messi
              in atto. Chi può, onestamente, enunciare affermazioni categoriche
              tipo: 'Il bambino è colui che...'? Eppure
              si fa sovente, con le buone intenzioni e le ragionate
              argomentazioni del ricercatore o con la baldanza e la superficialità
              degli scorridori da rotoca1co. Sull'infanzia non si può
              pontificare, né arrivare a conclusioni che aspirino ad
              autoconferirsi crismi di assolutezza e universalità. Verità
              quasi ovvia, si direbbe. Ma più spesso malnota, perché
              l'infanzia è stato e condizione inafferrabili per eccellenza, non
              foss'altro perché essa viene letta e descritta dai grandi, non
              dai bambini, che non hanno le parole per farlo."Il fatto che
              i bambini non abbiano le parole per dire la propria condizione è
              innegabile; bisogna però anche dire che quelle che i bambini non
              hanno sono soprattutto le "parole adulte", gli schemi
              adulti, le competenze adulte. E allora, se è vero che i bambini
              non possono compiere analisi sociologiche, elaborare filosofie o
              intraprendere iniziative politiche, è altrettanto vero che i
              bambini vivono la loro vita là dove si trovano, e sanno anche
              individuare in essa un senso in riferimento a bisogni paure e
              desideri, e che conoscono l'esistente nei suoi bagliori e nelle
              sue nefandezze e che dell'utopia non riescono a vergognarsi. Il
              vero problema sarà allora un altro: sarà che ai bambini non è
              riconosciuta una essenza piena; sarà che i bambini non
              interessano per quel che sono ma piuttosto per quello che si
              desidera diventino; sarà che dei bambini ci si occupa soltanto
              quando siano spettacolari, quando siano "mostri" o
              vittime di "mostri", quando siano quieti acquiescenti
              strumenti di consolazione o di consumo.  Tutto
              questo Petrosino lo sa bene, e contro tutto questo ha scelto di
              scrivere di bambini, di raccontare le infanzie, il loro quotidiano
              snodarsi tra desideri e paure, tra pianti e risate, tra entusiasmi
              e sorde sofferenze, tra grandi eventi e piccole consuetudini, tra
              domande.e domande; e cercando, per quanto possibile, di restituire
              ai bambini il maltolto: rispetto, dignità, voce. E questo non
              soltanto nei testi più, per così dire, riflessivi, rivolti agli
              adulti, ma anche in quelli scritti appositamente per i bambini.
              Così, per esempio, nei racconti de La febbre del karatè (Nuove
              Edizioni Romane 1989), si trovano bambini molto concreti, che
              ognuno di noi può incontrare ogni giorno. Come Alex, alle prese
              con i problemi derivanti da un orologio con suoneria che suscita
              dapprima grande ammirazione nei compagni di classe ma poi diventa
              una specie di incubo; o come Roberto, che si arrampica su
              inconsistenti vetri per mascherare l'incontinenza del cane; o come
              Michele e la sua fracassona passione per il karatè; oppure come i
              fratelli che devono apparecchiare o quelli che comunque sia si
              punzecchiano, e così via. Tutte situazioni molto realistiche, e
              realisticamente raccontate; però aperte subito alla possibilità
              di una svolta fantasiosa, divertente e divertita, e aperte subito
              anche ad assecondare il proprio volgersi in direzione del sorriso.
              A Petrosino evidentemente non interessa molto il "fantastico
              puro"; probabilmente gli interessa di più la disponibilità
              a cambiare e la capacità di servirsi della fantasia per
              intervenire sul reale. Questo non impedisce tuttavia che ne La
              febbre del karatè ci sia anche, per esempio, una storia con
              uno spettro, o che il lungo racconto L'isola senza nome (Nuove
              Edizioni Romane 1990) si svolga fra palme cetonie, formiche parlanti.
              Ma, appunto, si tratta di palme cetonie, formiche, cioè di quanto
              è più probabile trovare in qualunque isola. Nel tentativo di
              dare voce ai bambini, Petrosino si è anche cimentato in
              un'impresa forse più ardua: ha scritto il diario di una bambina, Un
              anno con Jessica (Sonda 1991, con postfazione di Ersilia
              Zamponi e illustrazioni di Franco Matticchio). E l'impresa è
              riuscita, giacché il diario di Jessica si snoda lungo un percorso
              che accuratamente non trascura alcuno dei momenti importanti in
              cui può incappare una bambina di dieci anni, anche se forse
              sarebbe stato più giusto, o più utile, attribuirle qualche
              perfidia in più. Qualcuno potrebbe dire che Jessica sia un po'
              improbabile come decenne, perché difficilmente a quell'età si può
              affermare di essere intenzionati a tenere un diario perché
              "per un anno intero voglio vedermi crescere e cambiare";
              qualcuno potrebbe dirlo, e a mio parere sbaglierebbe, perché,
              davvero, una bambina può farlo. E comunque non è questo
              che conta. Forse, più pertinente potrebbe essere qualche rilievo
              sul linguaggio, non sempre sufficientemente sorvegliato
              ("cespuglio che mi irretisse"; "le faceva stormire
              come lamine di metallo"; "si librava un'aquila";
              "l'ho esortato"; "indossare la gonnella";
              ecc.). Ma anche questo non è quel che conta maggiormente. Quel
              che conta davvero è che dietro la scelta di Petrosino c'è una
              rivendicazione precisa e una forte volontà di riscatto.        
              . Petrosino
              non dubita che i bambini siano soprattutto persone serie: tenaci,
              appassionati, selettivi. E con un importante conto aperto con le
              parole: preziose, queste, come l'acqua, come l'aria; e altrettanto
              insidiose. Lo ha ben capito un bambino di una della storie de La
              febbre del karatè, Fabio, che non ha ancora due anni e,
              ovviamente, non parla. Non parla perché se parlasse si
              pretenderebbero da lui espliciti preannunci di bisogni
              fisiologici; non parla perché, se parlasse, la madre, dovendo
              uscire, lo affiderebbe tranquillamente alla vicina, e Fabio non ne
              vuole proprio sapere, giacché la vicina è sempre lì a baciarlo
              e fargli moine, mentre lui i baci li vuole soltanto quando ne ha
              voglia davvero e solo "da chi mi piace", come per
              esempio dalla sua amatissima cugina Eliana, alla quale invece
              parla, eccome. Con lei Fabio, che non ha ancora due anni, parla sì,
              e le rivela tranquillamente tutto questo in piena fiducia, cioè
              in pieno fondamento d'amore, in piena complicità. Fatto, questo,
              che non impedisce comunque a Fabio ed Eliana di andare subito
              oltre lo svelamento e lo stupore e di servirsi subito delle parole
              per piantare il chiodo dei rispettivi bisogni e delle rispettive
              autonomie da perseguire. Petrosino ha capito che qui è il nodo,
              nelle dinamiche aperte
              e fluttuanti delle complicità necessarie
              e delle irrinunciabili autonomie. Certo,
              la dimensione pedagogica è in Petrosino decisamente dominante,
              questo a volte gli impedisce di abbandonarsi ad un raccontare più
              libero che prescinda in modo davvero totale dal suo
              rivolgersi accorato anche agli adulti. E però anche questo non
              riesce mai a soppiantare la sua disponibilità e il suo attivo
              agire in direzione di quelle necessarie complicità; riesce anzi,
              mi sembra a concretizzarne una sorta di altrettanto necessaria
              valle dell'eco, contro le solitudini.
                 Incontro
              con Angelo Petrosino  Vorrei
              partire da una definizione -
              che mi viene da fare sulla base della conoscenza del tuo
              lavoro, ma anche dall'averti sentito formularla - che si
              potrebbe dare di te: il tuo essere prima di tutto un
              “ascoltatore" dei bambini. Cosa significa? E come si
              traduce nella tua scrittura? Cosa implica rispetto al fatto che tu
              scriva "di" bambini e "per" i bambini?  In
              questi vent'anni, lavorando nella periferia torinese, ho
              incontrato sulla mia strada soprattutto bambini segnati da storie
              famigliari molto pesanti. Li ho sempre fatti parlare e ho
              frequentato anche l'ambiente nel quale vivevano, nella convinzione
              che il mio mestiere di insegnante dovesse consistere nel fornire a
              questi bambini strumenti di conoscenza ma anche nel favorire in
              loro il conseguimento di serenità e di sicurezza.
              Certamente non
              credo che la scuola debba
              sostituirsi alla famiglia o ad altri servizi
              sociali, ma essa non può ignorare quello che i bambini si portano
              dentro. Ascoltarli per me ha voluto dire conoscere meglio e più
              da vicino una certa infanzia: non tanto l'infanzia raccontata dai
              mass media, quanto l'altra, quella che rimane spesso isolata e
              nascosta.  Stai
              parlando di testi scritti e fruiti nell'ambito della classe. Però
              anche ne La febbre del Karatè si
              ritrova questa dimensione catartica, la dimensione del riso e
              del sorriso. Non il comico, non l'umorismo "forte", ma
              l’umorismo lieve.  Si,
              è vero. Rappresentando i bambini nella ricchezza delle loro
              emozioni, in un certo senso io mi rivolgevo anche agli adulti, ai
              quali fornivo la possibilità di trovare nei bambini protagonisti
              di queste storie un'immagine intensa dell'infanzia che gli
              gironzola tra i piedi, che sfiorano tutti i giorni, e che tuttavia
              sostanzialmente ignorano, o per incuria, o per distrazione. Ai
              bambini, ripeto, si presta poco ascolto. Io, invece, li ho sempre
              tallonati con un orecchio attento, ho cercato di rispondere alle
              loro domande, non ho mai esitato a mettermi in gioco, ho fatto la
              mia parte con dignità.  Questa
              è un po' una dichiarazione di metodo e di teoria pedagogica. Ne
              emerge un immagine di adulto che non si
              limita a trasmettere istruzione, ma collabora facendo la
              propria parte senza prevaricare e senza mascherarsi.  L'adulto
              non può limitarsi ad ascoltare asetticamente. Nel momento in cui
              un bambino gli parla delle sue gioie e delle sue sofferenze, egli
              non può ridursi a registrarle in forma notarile, ma deve mettere
              in gioco anche le proprie; naturalmente tenendole ben distinte e
              preservando la propria personalità di adulto, astenendosi
              soprattutto dal bamboleggiare. Sì, perché i bambini non
              tollerano l'adulto che bamboleggia. I bambini, quando parlano,
              sono maledettamente seri.  Non
              ti convince quindi una scuola che dia spazio soltanto
              all'istruzione...  Non
              mi ha mai convinto. E tuttavia voglio dire questo. Oggi si tende a
              distinguere tra i partigiani dell'istruzione e quelli
              dell'educazione. Io non vedo assolutamente il conflitto tra le due
              cose, perché non credo che si possa coltivare, per così dire, o
              esclusivamente il cervello, o esclusivamente l'anima. Credo
              piuttosto, semplicemente, che si impari meglio acquisendo delle
              forti sicurezze interiori. lo credo di essere un professionista
              serio nel mio mestiere: nel senso che tengo ben conto dei processi
              di apprendimento e della necessità di dare alle parole dei
              bambini, e alle esperienze delle quali sono portatori (insomma
              alla loro cultura) la dignità che gli spetta. D'altra parte penso
              che, benché non sia la sola a istruire e a educare, la scuola
              abbia oggi una funzione fondamentale. Tempo fa ascoltai una
              conferenza di Norberto Bobbio. Rivolgendosi soprattutto agli
              insegnanti, egli li sollecitò a praticare
              essi la democrazia nella scuola,
              perché, nel clima che si respira, i bambini non avrebbero avuto
              altrove le possibilità di viverla e quindi di apprenderla.
              Probabilmente, anziché piangerci addosso e ripeterci quanto siamo
              depressi perché i bambini e i ragazzi non ci ascoltano, maestri e
              professori dovremmo cambiare atteggiamento e ascoltare con più
              attenzione i bambini e gli adolescenti con i quali abbiamo
              giornalmente a che fare. In questo modo, anche i
              "rompiscatole" smetterebbero di essere tali, perché un
              bambino rompiscatole è fondamentalmente un bambino inascoltato:
              non essendo ascoltata la sua voce e la sua parola, produce altri
              suoni per farsi sentire. Un
              bambino casinista, insomma, è soltanto un bambino alla ricerca
              (talvolta disperata) di un interlocutore. La scuola è importante
              anche perché i bambini nella famiglia stanno oggi molto stretti.
              La famiglia è sempre più un "luogo" in cui i figli
              contano soltanto per le mete sociali cui i genitori aspirano. E
              insomma una sede in cui il valore prevalente che si onora è
              quello della competizione. Un insegnante può, se vuole, costruire
              in classe un clima adatto a lavorare insieme e a realizzare tante
              situazioni in cui sia chiaro che lo scopo dello stare a scuola e
              soprattutto quello di arricchirsi reciprocamente e di stare bene.
              Personalmente non credo di avere la vocazione del cireneo che si
              addossa il suo carico di croci. Tornando a casa da scuola porto
              con me sicuramente molta stanchezza, ma anche tante emozioni e
              tante storie infantili tutte degne di memoria.  Tu
              hai spesso sostenuto di non avere una ideologia, di non avere una
              morale da insegnare, eccetera. Mi sembra comunque che dal tuo
              lavoro emerga soprattutto un principio: la considerazione dei
              bambini come persone a tutti gli effetti, come persone che stanno
              vivendo un tempo specifico della loro esistenza e non come esseri
              incompiuti. E ti sei cimentato anche con il loro punto di vista.
              Per esempio, Un
              anno con Jessica è il diario di una bambina. C'è una ragione
              particolare per cui hai scelto il diario e soprattutto di una
              bambina?  L'ho
              fatto in parte perché non c'era, nella letteratura per l'infanzia
              del nostro paese, il diario di una bambina. E poi perché ho
              voluto sottolineare il fatto e l'esperienza dello
              "scrivere". Secondo me, scrivere salva spesso la vita: e
              questo vale tanto per gli adulti quanto per i bambini. Ho, in
              effetti, constatato ripetutamente che anche per i bambini la
              scrittura è uno strumento essenziale per conoscersi meglio, per
              meglio conoscere il mondo che si ha intorno e per tenere vigile e
              desta la propria curiosità. Naturalmente dietro queste
              considerazioni c'è la memoria di ciò che la scrittura ha
              significato per me, soprattutto negli anni della mia adolescenza.
              Io ho imparato l'italiano come seconda lingua. Fino ai dodici anni
              parlavo il mio personale dialetto e un francese imbastardito che
              mi era recato dietro dopo il mio ritorno dalla Francia dove ero
              emigrato. Nel Midi della Francia avevo frequentato delle scuole
              francesi. Quando poi sono andato a vivere a Parigi non ho più voluto
              sentir parlare
              di scuole. In un primo
              tempo Parigi mi intimidiva. Poi però, benché avessi soltanto
              undici anni, ho imparato a percorrerla disinvoltamente da un capo
              all'altro, spendendo egregiamente il francese che avevo appreso
              nel corso della mia permanenza a Chatel Guyon, nell'Auvergne. Una
              volta tornato dalla Francia (anzi, cacciato con un foglio di via
              insieme ai miei, perché non potevamo permetterci di avere un
              alloggio decente nell'affollata Parigi), ho voluto impadronirmi
              della lingua italiana, che a me sembrava un mezzo utile per
              tirarsi fuori dalla miseria, insomma uno strumento di riscatto
              sociale: proprio così. Riempiendo di scrittura in modo furioso e
              selvaggio quaderni su quaderni, ho cominciato a provare un gusto
              insolito nello scrivere, a riflettere con più metodo e a fare i
              conti con me stesso. Il diario di Jessica è stato un po'
              l'approdo di una gioiosa esaltazione della "scrittura”.  Ora il diario di Jessica avrà un seguito. Il nuovo libro uscirà ad aprile, alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna.  Sì.
              Nel primo diario sono presenti molti aspetti avventurosi e molte
              storie. Ci sono anche nel secondo, che però è caratterizzato da
              un tono un po' diverso. Ho
              pensato, per esempio, di trasportare la bambina in Cornovaglia,
              che è la terra cui sono legati, per così dire, i miei sogni da
              adulto. Ho voluto
              cioè collocarla in parte in un possibile altrove, allontanandola
              dalle vicende
              quotidiane e abituali, cui pure ritorna con forza nel corso delle
              esperienze che il
              diario registra. In questo diario Jessica ha solo un anno in più,
              però è cresciuta psicologicamente, pone domande più complicate
              e affronta relazioni umane e sociali più laboriose.  Quali
              sono i tuoi
              amori nella letteratura per
              ragazzi?    Devo
              dire che la letteratura per ragazzi l'ho incontrata molto tardi,
              diventandone però subito un entusiasta cultore. I primi libri ho
              cominciato a leggerli intorno ai dodici tredici anni: fino ad
              allora avevo consumato soltanto fumetti e cinema. Il primo libro
              in assoluto nel quale mi capitò di imbattermi fu Pinocchio: lo
              scovai sotto un mucchio di carta straccia in un magazzino che
              fronteggiava la mia scuola, e lo pagai quindici o venti lire. Da
              allora, dovendo anche fare i conti con i pochi soldi che avevo, ho
              cominciato a procedere molto a casaccio. Qualcuno mi mise in testa
              delle strane idee, io cominciai ad acquistare i libri poco costosi
              della gloriosa BUR. Ma cosa acquistavo? Leopardi, Dante e i
              Trecentisti! Così speravo di imparare l'italiano come seconda
              lingua a dodici anni! Ma quella fatica improba, benché assurda
              date le circostanze, non fu affatto inutile. Una professoressa
              della scuola di avviamento che frequentavo, gentile e materna nei
              miei riguardi, mi diede una copia fredda e severa de I promessi sposi,
              edita dal Poligrafico dello Stato. Ma
              io la lessi con puntiglio e cocciutaggine più di una volta: da
              non credersi. Poi,
              muovendomi tra le bancarelle,
              cascai su I Miserabili, Dumas, Verne e Il richiamo della foresta
              di London, che mi appassionò parecchio. Libri,
              insomma, impraticabili per l'infanzia dei nostri giorni. I libri
              per l'infanzia ho cominciato a conoscerli, e a leggerli, solo in
              età adulta. Per cui, amo i particolari risalenti alla mia
              infanzia... Ma sì, posso dire che la memoria ritorna con
              tenerezza al Pinocchio di CoIlodi, che tirai fuori spiegazzato e
              squinternato da sotto un mucchio polveroso di carta straccia. Ho
              sempre amato i libri per l'infanzia i cui protagonisti sono
              bambini riottosi, ribelli, insofferenti. Come quelli di Dahl, per
              esempio, i cui libri leggevo con piacere già prima che venissero
              tradotti da noi.   Hai
              delle predilezioni per un filone particolare? Amo
              leggere libri di tutti i generi: dal fantastico, al realistico, al
              poetico... Li giudico tutti importanti, perché ognuno di essi
              risponde a bisogni diversi dei bambini, che devono essere
              soddisfatti. Personalmente preferisco partire da momenti e
              elementi reali, non per riprodurre il reale così com'è, ma per
              trasfigurarlo lungo percorsi insoliti e nuovi. lo non credo
              affatto che un libro di narrativa per ragazzi debba insegnare
              alcunché.  Oltre
              al nuovo diario di
              lessico usciranno altri tuoi libri...  Sì,
              oltre al nuovo diario di Jessica (da Sonda, come il precedente, e
              si intitolerà probabilmente lessico e gli altri. come il
              primo, con le illustrazioni di Franco Matticchio), sempre da Sonda
              uscirà in maggio una raccolta di quelli che io chiamo
              "racconti pedagogici" e che sono storie di bambini e
              riflessioni su infanzie da me conosciute nel mio lavoro, già
              pubblicati su varie riviste. II titolo sarà probabilmente Storie
              rubate. Ancora da Sonda, in settembre. uscirà nella collana
              "Tenerezza", un lungo racconto intitolato Una strana
              primavera e che è la storia, credo non banale, di un bambino
              che si innamora seriamente e perdutamente della sua maestra, Infine, nel corso dell'anno. uscirà una nuova raccolta di racconti per ragazzi dalle Nuove Edizioni Romane e il cui titolo sarà Amore e Pallone. |