Leggi Calvino. Quel che conta è la lingua   

da ècole 30 2004

                                                                                                           

Fossi stato in un fumetto di Paperino, quella sera avrei visto l'apparecchio telefonico sobbalzare sulla scrivania, a segnalare sùbito come la chiamata tutto potesse essere tranne che di routine, prevedibile, monotona, supplemento non richiesto di noia; a segnalare sùbito che c'era qualche

 Furia in movimento: che poi si trattasse di Erinni oppure di Eumenidi era  cosa del tutto secondaria, quel che contava era ci fosse vita. Che la chiamata fosse foriera di notizie piacevoli o dolorose, che covasse nel proprio seno entusiasmi o catastrofismi, quel che è certo è che avrei saputo in anticipo che in essa era annidata una passione. E io avrei sollevato la cornetta con uno slancio diverso, e non già con l'espressione contrita di quando ti aspetti qualcosa che ti lascerà indifferente. Ma, per mia fortuna, quella sera, l'asettico squillo e la rigida immobilità dell'insidioso oggetto nascondevano invece una bella sorpresa. Una telefonata carica di vitalità, di indignazione, di passione.

    Chi chiamava era un'insegnante di scuola elementare (una "maestra di matematica", per la precisione), una persona che stimo molto ma sento raramente: se mi telefonava doveva esserci una ragione importante. Infatti c'era. Mi raccontò che aveva una prima classe e che aveva deciso di essere lei a proporre ai propri alunni la lettura ad alta voce di vari libri. Era andata in biblioteca e in libreria, aveva consultato cataloghi, aveva letto e letto, aveva letto tanto. Ed era rimasta allibita. Sì, perché la sensazione più forte era che tutti quei libri, ancorché ispirati dalle intenzioni più diverse, e fors'anche migliori, fossero accomunati dall'idea che i bambini siano sottospecie di umani, per cui diventa legittimo rivolgersi loro servendosi non già di una lingua bensì di sottospecie di lingue. Bamboleggiamenti, leziosaggini, e soprattutto sciatteria.

    Nella sua furia torrentizia la "maestra di matematica" mi fece apparire librini e libretti spesso corredati di illustrazioni il cui eventuale alto livello veniva svilito dalle melanconiche angustie dei testi. E così chiedeva soccorso, la "maestra di matematica", chiedeva qualche titolo che la risollevasse, qualche titolo che la riconciliasse con la sua idea di partenza, per non doversi ridurre a considerarla un'idea peregrina.

    Il soccorso affiorò spontaneamente alle labbra; non un pensiero, non un ragionamento, soltanto parole incontenibili. «Leggi Calvino, le Fiabe italiane. Quel che conta è la lingua». Vidi aprirsi un sorriso, il sorriso dell'annuncio di una liberazione. Sorriso e sollievo che erano anche miei, e che diedero persino il via ad un fremito nazionalistico: sventolando il tricolore pensavo a Calvino, Basile, Collodi, Imbriani, Morante, D'Arzo , Landolfi...

    E quando poi mi disse: «Mi chiedono storie di paura...», io dimenticai che si trattava di bambini piccoli e lasciai partire un altro pensiero incontenibile: «E tu allora spaventali davvero. Leggi Emma Perodi, le Fiabe fantastiche».

 Sì, perché quel che conta davvero è la lingua, come attesta anche una bellissima storia ora leggibile in quel libro meraviglioso che è Fiabe ebraiche, curato ottimamente da Elena Loewenthal per "I millenni" Einaudi (nonché impreziosito dalle illustrazioni di Mimmo Paladino). In questa storia c'è un re pieno di acciacchi al quale i medici prescrivono latte di leonessa. Riuscirà, naturalmente, a berlo, e quindi a guarire, ma non prima che si sia assistito a un bellissimo dibattito su cosa conti davvero. Una storia bellissima, peraltro già mirabilmente raccontata anche dal mio adorato Isaac Bashevis Singer in Mazel e Shlimazel ovvero Il latte della leonessa. E così se la "maestra di matematica" saprà fare due più due potrà prontamente riconsolarsi e, giacché «morte e vita sono in potere della lingua» (Proverbi, 18, 21), potrà fornire a sé stessa e ai suoi piccoli alunni una grande iniezione di vitalità.