Gli orizzonti inaspettati di Silvio D'Arzo

da Linea d'Ombra annata 1997

                                                                                                           

Gli orizzonti inaspettati di Silvio D'Arzo

Parlando di quel grande bellissimo libro che è La Storia, Pasolini accusava Elsa Morante di avere peccato di pigrizia e di «non amore» nei confronti dell'apparentemente tanto amato personaggio Davide Segre, Scriveva infatti che «il parlato di Davide non ha riscontro in nulla: il ragazzo si presenta come bolognese, in realtà è mantovano, ma parla una specie di

 veneto. Non c'è tuttavia angolo nell'Alta Italia in cui cadere si dica cader'» e quindi il fatto «che Davide dica cader è offensivo per il lettore: ma è soprattutto offensivo per lui».

Elsa Morante è sicuramente tra i più grandi scrittori, ma queste parole dure e definitive erano soltanto dolorosamente giuste. Nonostante si trattasse di un grande bellissimo libro quelle parole andavano dette. E cosi, se per un peccato di questo tipo non si poteva assolvere nemmeno Elsa Morante, tantomeno, per qualcosa di analogo, potrà essere assolto Biagio Laprea - curatore di una edizione di un libro bellissimo di quel grande scrittore misconosciuto che è Silvio D'Arzo, Penny Wirton e sua madre, pubblicato da Einaudi Scuola nella collana «Nuove letture» - curatore che spiega, in una nota ad uso della costumata gioventù cui il libro è rivolto, che cosa facesse il locandiere di Shorly quando «radeva il formaggio».

Essendosi cimentato non solo con il proprio friulano e con le borgate romane ma anche con quel Canzoniere italiano (Guanda '955, disponibile ora da Garzanti) che raccoglieva dialetti e parIate di ogni angolo, e non solo dell' "Alta Italia», Pasolini aveva evidentemente qualche titolo per poter negare l'esistenza di un verbo in qualche parte di mondo. Di questi titoli io invece non ne possiedo alcuno, e quindi il mio ergermi a giudice ha probabilmente a che fare con la presunzione, ma devo dire di essere vissuto per un consistente numero d'anni in un paese dell'Appennino tosco-emiliano - un paese che somigliava molto ai luoghi di certe storie di D'Arzo e non ne distava che qualche vallata ­ dove ho avuto modo di vedere abbondantemente che cosa facesse chi «radeva il formaggio», E quando, dopo tredici anni trascorsi lassù, sono sceso in città per studiare, tra quella città e quella in cui D'Arzo era vissuto c'era qualcosa come venti chilometri, e anche li chi «radeva il formaggio» era come su ai monti. Sia li che lassù chi «radeva il formaggio» altro non faceva che grattugiarlo.

E poi basterebbe fare un salto, o anche soltanto una telefonata, nella provincia di Reggio Emilia, per scoprire come ancor oggi quei dialetti intendano ancora lo stesso; e D'Arzo conosceva bene i dialetti di quelle parti, essendosi laureato a Bologna nel 1941 con una tesi di filologia relativa appunto a dialetti di alcuni paesi dell'Appennino reggiano ­ Aggiunte e correzioni all'A.I.S. per il centro 444, tesi di laurea che ora è stata pubblicata a cura di Lando L. Landini, con il nome di Ezio Comparoni, il nome vero, essendo infatti «Silvio D'Arzo» solo uno dei tanti pseudonimi di cui D'Arzo si servì. E lo stesso Landini, in AA.VV., Silvio D'Arzo. Uno pseudonimo per legittima difesa, Editrice Bertani & C., Cavriago 1994, racconta come D'Arzo gli avesse un giorno fugacemente spiegato come quello pseudonimo stesse a indicare semplicemente le sue origini: «arzàn», in dialetto, significa infatti reggiano. Invece il curatore dell'edizione scolastica del bellissimo Penny di D'Arzo, in una nota relativa al «radeva», e in ogni caso di per sé solamente superflua, scrive che l'oste di Shorly quel formaggio lo «tagliava». Pigrizia, direi, e direi anche offensiva per la costumata gioventù cui si rivolge, nonché per quell'oste e per il povero autore - per di più impossibilitato a difendersi, essendo egli morto nel 1952 in quella stessa Reggio Emilia in cui era nato nel 1920.

È evidente che una nota inutile e sbagliata potrebbe anche essere qualcosa su cui tranquillamente sorvolare, ma D'Arzo era attento ai versi e ai gesti e alle voci come un cane da caccia o anche due, e niente l'ha messo lì a caso, e guardava davvero quello che raccontava, e stava finanche a contare le sillabe, ché fossero giuste, non una di meno. E neanche di più. Ma quel che davvero mi sembra importante denunciare non è tanto quella nota sbagliata o la pigrizia di un curatore (e voglio tacere della brutta, stonata copertina); il guaio vero è che di un libro come Penny Wirton e sua madre sia stata fatta l'edizione scolastica, con tanto di note e di «Percorsi di lettura». Nel caso specifico questi sono due: si chiamano "Percorso A» e «Percorso B», il primo fatto di domande secche secche, il secondo più disteso, entrambi lì pronti per le «fasce di livello» e il cul­dipiombismo docente.

Certo, la questione degli «apparati didattici», dei «suggerimenti per le tue ricerche», delle note a piè di pagina, dei questionari e dei giochi allegati a romanzi racconti fiabe leggende poesie, insomma la questione delle edizioni scolastiche è una questione che richiede sicuramente qualcosa di più delle sommarie parole di condanna pregiudiziale, di principio, che qui vorrei comunque ribadire. E se poi è anche vero che ci sono insegnanti che hanno molto bisogno d'aiuto e che non sono in grado di prendere un libro e di farci qualcosa, questa è un'altra questione che merita qualche parola specifica, ma non si capisce perché a fare le spese di una realtà sconfortante debba esser per forza una storia. E però, se l'edizione scolastica di un libro è sempre un problema, nel caso di D'Arzo lo è ancora di più. Un libro impregnato di scuola è un libro ammansito, è meno dell'ombra del suono del tacco, e infatti cammina con gambe non sue. E se può esser vero che un libro impregnato di scuola si predispone a essere forse più conosciuto e comprato, è vero altrettanto che è molto difficile che possa diventare un libro amato.

In questo caso il problema è ancora più grande che mai, perché Silvio D'Arzo merita meno di altri questa fine. Oltre ad essere un grande scrittore misconosciuto, D'Arzo era anche una persona con idee singolarmente chiare sulla scuola, sulla lettura, sulla scrittura, sulla cosiddetta letteratura per !'infanzia, sulle storie per i ragazzi, sulla possibile funzione delle storie nella vita; ma nessuna di queste aveva qualcosa a che fare con gli ammansimenti. Potevano avere a che fare con certe debolezze, con certe ipervalutazioni della Letteratura, per esempio, ma non certo con gli ammansimenti. Anzi, una delle caratteristiche di D'Arzo è proprio quella della radicalità degli intenti. E, a proposito di scuola, basti dire che D'Arzo aveva espresso l'intenzione di scrivere una storia con un «Buon Pirata che, vecchio ormai, sfinito, abbandona ai flutti la sua vecchia nave: si fa col legno della «vecchia nave» la gamba di legno: gamba di legno che, lui morto, si pianterà in un albero di terra, e verrà su, dopo un poco, albero grande dove sorgerà la vecchia, indimenticabile Scuola di Pictaun».

Inoltre bisogna ricordare che nella Prefazione a quella che avrebbe dovuto essere la sua opera più articolata e ampia, il romanzo Nostro lunedì, D'Arzo scriveva: «Forse la prima ragione per cui ogni cosa ha diritto sempre ad un po' di rispetto è proprio quella di avere una storia». La Prefazione a Nostro Lunedì comparve per la prima volta nel 1960, in un importante volume antologico intitolato Nostro lunedì e curato da Rodolfo Macchioni Jodi per le edizioni Vallecchi. Volume introvabile ma ancor oggi molto importante, in quanto si tratta della raccolta più ricca di scritti darziani, essendo composto da racconti, poesie e saggi. Inoltre si tratta dell'unica possibilità di leggere un racconto come L'osteria, mai ripubblicato in nessuno dei libri che in questi anni hanno variamente riproposto gli altri scritti contenuti nel volume Vallecchi e alcuni inediti.

La più recente raccolta è L'aria della sera e altri racconti, curata da Silvio Perrella per i Tascabili Bompiani nel 1995 e contenente i racconti brevi, una redazione della storia «per ragazzi» Il pinguino senza frac, la Prefazione a Nostro lunedì, il prodigioso Casa d'altri. Questo straordinario racconto si trova anche nei «Nuovi Coralli» di Einaudi, in un'edizione tanto elegante quanto carente di coordinate, sia sull'autore sia sul suo capolavoro. Il libro curato da Perrella contiene anche un racconto, Piccolo mondo degli umili, proveniente dal primo libro di D'Arzo, uscito da Carabba nel 1935, Maschere, riproposto interamente, insieme agli incompiuti L'uomo che camminava per le strade e Un ragazzo d'altri tempi, in un libro, cui quest'ultimo racconto dà il titolo complessivo, pubblicato da Passigli nel 1994.

Poco prima, nel 1993, era uscito da Quodlibet un libro, curato da Daniele Garbuglia, contenente i racconti brevi, la Prefazione a Nostro lunedì e il già ricordato L'uomo che camminava per le strade, che dava il titolo al volume. Di All'insegna del Buon Corsiero sono uscite recentemente due edizioni: quella di Adelphi, corredata di una Premessa di Enzo Turolla e di una Nota al testo di Anna Luce Lenzi; e quella delle Edizioni La Vita Felice, che riproduce l'edizione 1988 di Claudio Lombardi Editore, con prefazione di Mario Spinella.

E risulta ancora disponibile nel catalogo Garzanti, pur essendo uscito nel 1976, il romanzo Essi pensano ad altro, curato da Paolo Lagazzi e accompagnato da una nota di Attilio Bertolucci. L'editore Diabasis di Reggio Emilia, inoltre, ha pubblicato un prezioso cofanetto contenente tre plaquettes: Poesie, Lettere per Ada, Una storia così, affiancate rispettivamente da scritti di Gianni Scalia, Anna Luce Lenzi e Paolo Lagazzi. Di quest'ultimo, sempre presso Diabasis, era uscita in precedenza una raccolta di studi darziani, Comparoni e «l'altro». Sulle tracce di Silvio D'Arzo, recante in appendice il racconto inedito Una storia cosi risalente alla fine degli anni Quaranta e pubblicato da Lagazzi nel 1992 per la prima volta nella sua pur incompiuta integrità.

È poi importante ricordare che presso Sellerio, nel 1987, a cura di Eraldo Affinati, erano usciti i bellissimi saggi di Contea inglese, con l'appendice delle lettere di D'Arzo a Emilio Cecchi e a Ada Gorini. Altrettanto importante è ricordare che presso l'editore Mucchi di Modena, nel 1986, era uscito Nostro lunedì - di Ignoto del XX secolo: un libro ignorato da tutti ma molto importante, giacché con esso la curatrice Anna Luce Lenzi, a partire dalla già ricordata Prefazione e assemblando racconti pubblicati e frammenti inediti, tentava di dare corpo a un più volte accennato, da D'Arzo stesso, grosso romanzo, a quelle cinquecento pagine di cui parlava nell'ultima sua lettera a Enrico Vallecchi, a una sorta di «Eneide del XX secolo» peraltro ben più che intravedibile nella Prefazione. Congettura, ovviamente, questa della Lenzi, ma sicuramente suggestiva e, quel che più conta, assai argomentata. Ma il lavoro di Anna Luce Lenzi, studiosa vera di D'Arzo, va ricordato tutto, e qui in particolare per menzionare la sua appassionata e rigorosa cura del cospicuo Carteggio (194I-I95I) tra Silvio D'Arzo e Enrico Vallecchi, pubblicato dalla Biblioteca «A.Panizzi» di Reggio Emilia come numero doppio della sua rivista «Contributi» nel 1984.

Ci sono almeno un paio di ragioni alla base del mio attardarmi in questa non breve - seppure non esausti va, e soprattutto volutamente priva di un «capitolo» particolare - digressione bibliografica. La prima ragione consiste semplicemente nel desiderio di propagandare l'opera di questo straordinario scrittore, come e cosa del suo lavoro sia possibile leggere. La seconda ragione nasce invece dall'esigenza, a dispetto di tanta abbondanza, di recriminare, di lamentare lacune. Per esempio, perché, dopo il volume vallecchiano del 1960, non è più stato possibile leggere L'osteria, un importante racconto, dei primi anni Quaranta, abitato da alcuni personaggi indimenticabili? E perché a nessuno è dato di leggere la redazione di Casa d'altri che venne pubblicata da Sansoni nella «Biblioteca di Paragone» nel1953? Perché non c'è un editore che voglia osare la pubblicazione di un libro composto dalle due redazioni di questo impareggiabile racconto? In questo modo, visto che D'Arzo ha trovato cosi presto «la strada di casa», potremmo essere noi, lettori innamorati o innamorabili, a decidere se abbiano avuto ragione Silvio Perrella e l'Einaudi e Macchioni Jodi proponendoci di Casa d'altri la redazione da loro pubblicata; oppure se abbia ragione Paolo Lagazzi, che si schiera per la redazione Sansoni, «con tutte le sue maggiori cautele, con le sue più lunghe ironie, con i suoi particolari magici (certi bellissimi accessori del vestiario della Zelinda), perfino con certi Iati oscuri, irritati, ancora lievemente infantili dell'umanissima psicologia del prete» - e poi sarà utile, a questo proposito, attingere agli importanti studi di Paolo Briganti e di CIelia Martignoni pubblicati in Silvio D'Arzo. Lo scrittore e la sua ombra, Atti delle Giornate di studio, Reggio Emilia 29-30 ottobre 1982, Vallecchi 1984.

E ancora: perché, a fianco di tanti piccoli encomiabili e preziosi rivoli, non c'è qualche lago? E perché non un mare? Perché non c'è un «tutto D'Arzo» ­ che so? - nei Grandi Libri Garzanti, nei Tascabili Einaudi, negli Struzzi?

Ho trascurato, nella mia digressione bibliografica, il «capitolo» riguardante i libri «per ragazzi». Li ho trascurati di proposito; e questo non già per assecondare quel sentire prevalente che assegna uno status di inferiorità a questo tipo di produzione, bensì perché è proprio sul D'Arzo «per ragazzi» che intendo soffermarmi. In questo «capitolo» l'elenco dei titoli è breve, e le pubblicazioni sono tutte abbondantemente postume: Penny Wirton e sua madre, Einaudi 1978; Il pinguino senza frac e Tobby in prigione, Einaudi 1983; Una storia così, Diabasis 1995. Un elenco però cosi breve da non rendere certo l'idea di come e quanto per D'Arzo fosse importante questa articolazione del suo lavoro.

Bisogna dire inoltre che questo breve elenco è formato da titoli databili al finire degli anni Quaranta, ma l'interesse di Silvio D'Arzo per la cosiddetta letteratura per l'infanzia è documentato da ben prima. Risale infatti al12 febbraio 1943 una lettera di Enrico Vallecchi a D'Arzo, nella quale l'editore dice di voler «sapere se vi sorriderebbe l'i­dea di scrivere per conto nostro un libro per i ragazzi. Con la vostra fantasia, che si accende anche nelle occasioni più modeste, mi sembra che potreste riuscire brillantemente anche nel settore della letteratura infantile».

La risposta di D'Arzo è non solo entusiastica, ma rivelatrice di un interesse già ben coltivato: «E veniamo, ora, al libro per ragazzi. Vi dirò senz'altro che la vostra proposta mi fa riaffiorare un vecchio e mai soddisfatto desiderio di scriverne appunto uno, al modo mio. Cinque anni fa circa [cioè almeno intorno al 1938], leggendo il Perrault, prima, poi, poco dopo, J. Matthiew Barrie, scoprii - checché il Croce voglia pensarne in merito - degli orizzonti insospettati, vastissimi, un miracolo nella letteratura per bambini: un campo nuovo, o quasi - non credete? - benché di - diciamo - coltivazione assai difficile. Più volte ci ho pensato, vi ripeto, e la vostra proposta mi giunge assai a proposito, come una parola dell'amico che invita a lasciare certe timidezze: e - poiché, Iddio volendo, fra due mesi, avrò tutto il giorno a mia disposizione - mi applicherò senz'altro, con un ardore, vedrete, affatto nuovo, perché desidero scriverlo, soprattutto, a un modo mio, che non può trovare la sua completa espressione se non in un mondo fatto per bambini».

Comincia così con questo scambio di lettere, un percorso che durerà anni, e sarà avventurosamente costellato di progetti, anticipazioni, ripensamenti, dubbi, slanci, insistenze, incomprensioni. E quel che Vallecchi aveva acutamente intravisto, cioè il fatto che D'Arzo potesse «riuscire brillantemente anche nel settore della letteratura infantile», sarà sempre accompagnato dalla consapevolezza del rischio che «certi risultati magici della vostra prosa» possano dimostrarsi «non adatti per i piccoli lettori, i quali non rintraccerebbero il valore evocativo di gesti, situazioni, ecc».

 D'Arzo lavorò molto al «libro per ragazzi», tanto che arrivò a scriverne in realtà ben più di uno, e nel carteggio con Vallecchi se ne trovano in abbondanza titoli e trame, abbozzi e fantasmi, ombre e figure massicce. Quanto ai «risultati magici» della propria scrittura, ne tenne ben conto, ma non certo per banalizzarsi o impoverirsi, bensì per spendersi ancora di più, se possibile, preoccupato di evitare quella «goffa mediocrità» che aveva riscontrato nella quasi totalità dei libri per ragazzi alla cui lettura si era dedicato. Non è difficile credergli, conoscendo lo scrupolo quasi maniacale con cui affrontava ogni lavoro; né è difficile capire e condividere quel giudizio desolato, pensando a molta desolante produzione italiana del periodo. D'Arzo considerava la scrittura un'attività che poteva fornire senso all'esistere, non certo un surrogato dimesso del vivere, ed era persona trop­po seria ed esigente per potersi conce­dere il lusso di assentarsi, seppure temporaneamente o parzialmente, dal proprio fondo profondo; inoltre considerava i bambini e i ragazzi innanzitutto persone serie. Molto probabilmente perché sapeva bene di quanta e quale alterità fossero inesorabilmente portatori; e perché altrettanto bene sapeva quale ricettacolo di dolore, di disillusioni, di immedicabilità potesse essere il tempo dell'infanzia.

Bisogna poi considerare anche il fatto che D'Arzo, come già ricordato, aveva cominciato a muoversi nella cosiddetta letteratura per l'infanzia a partire da Perrault e da Barrie; progettava «uno studio abbastanza lungo su 'Tre viaggi": quello di Gordon Pym, quello del capitano Achab di Moby Dick, quello dell'Hispaniola di Stevenson»; si accingeva a tradurre Peter Pan; inoltre pensava a modelli come il Kipling «senza trombe» delle Storie proprio cosi, come Conrad, come Stevenson, «benché, ad esso, io sia del parere che viaggi per mare, con pirati e tesori, siano troppo pericolosi, dopo che Stevenson ci ha messo le mani».

Purtroppo, del progettato studio sui «Tre viaggi» non ci è arrivato nulla, ma a Stevenson D'Arzo ha dedicato almeno due saggi nel 1950 (L'isola di Tusitala e Una morte più bella di un poema, ora leggibili nel già citato Contea inglese), che sono bellissimi e molto ci dicono della particolare sintonia tra i due scrittori. Dal carteggio con Vallecchi si ricavano notizie su quei libri che in seguito si è arrivati a conoscere, ma anche numerosi accenni a trame poi abbandonate, o magari sviluppate altrove, e anche forse in qualcosa ancora da scoprire, giacché con D'Arzo non si finisce mai di scoprire. Ma dal carteggio si ricavano anche strani silenzi, e accenni estremamente fugaci, abbastanza inspiegabilmente lasciati senza riprese. Per esempio, è solo alla data del 20 settembre 1949 che si trova un accenno a «un mio libro per ragazzi Tobia in prigione (una storia di castorj), accompagnato dalla rivelazione di averlo «venduto per 20 anni a Paravia, che me lo ha pagato veramente in misura soddisfacente»; e due mesi più tardi, nel dicembre di quello stesso 1949, D'Arzo dice a Vallecchi di avere scritto <<un breve libro per ragazzi, che, ti giuro, mi ha divertito e riposato assai: Il pinguino senza frac>>. E aggiunge: «Non credere che questo sia un disperdersi: alla storia del pinguino povero, che non può andare nemmeno a scuola assieme agli altri perché è cosi povero da non potersi comprare il frac, e se ne va a lavorare per il mondo, fra foche e gabbiani, e crede di essere diventato matto perché s'accorge che anche l'orso, e anche il terribile uomo, piangono come lui, soffrono come lui, sono, in fondo, come lui (e in questo tutti gli animali trovano la loro più intima e profonda parentela), e ritorna al suo vecchio paese più triste e povero di quando era partito, ma ecco che si accorge che gli è spuntato il frac più splendido immaginabile (e gli altri, al confronto, sono povere e vecchie cose), questa storia, dico, scritta per ragazzi, mi ha servito a chiarire molte cose».

Ecco: su questi due titoli nient'altro, nel minuzioso carteggio. Eppure D'Arzo ruminava a lungo i suoi libri; e questi due racconti, pubblicati nel 1983 da Einaudi in un volume della collana «Libri per ragazzi» con il titolo Il pinguino senza frac e Tobby in prigione (ma una diversa redazione, più breve, del Pinguino era stata pubblicata nel 1977 da Anna Luce Lenzi in appendice al suo Silvio D'Arzo. Una vita letteraria, Tipolitografia emiliana; nel 1985 da Enrico Ghidetti e Leonardo Lattarulo in La bottega dello stregone. Cent'anni di fiabe italiane, Editori Riuniti; e ora da Silvio Perrella nel già ricordato L'aria della sera), sono due racconti compiutamente elaborati: nella partitura, nelle cadenze, nei richiami, nelle profondità, nelle levità, nelle ossessioni.

Quando, nel 1978, Einaudi pubblicò Penny Wirton e sua madre, ne rimasi un po' come folgorato. È per questo che fu con particolare avidità e eccitazione che lessi, su «Il Ponte» dell'aprile 1979, un articolo - letto e riletto poi mille volte, e conservato accuratamente fino a oggi - di Rodolfo Macchioni Jodi intitolato Silvio D'Arzo narratore «per ragazzi». Un articolo che raccontava in modo circostanziato dell'esistenza, tra le carte di D'Arzo, oltre a Penny Wirton, di altre storie scritte «per i ragazzi»: Tobby in prigione, Il pinguino senza frac, Una storia casi, Gec. E quando, pochi anni più tardi, uscirono da Einaudi Tobby e il Pinguino, capii che aveva avuto senso aspettarli. Non erano Penny, d'accordo, ma erano storie importanti e belle davvero. E ancora, un bel mucchio d'anni più tardi, negli anni Novanta, quando Una storia così comparve nelle già ricordate edizioni Diabasis - ma un assaggio si era potuto gustarlo già nel 1990, quando sul numero 2 di «Idra» ne era uscito un capitolo - ancora, dicevo, la stessa felice sensazione di un'attesa premiata. Certo, anche questo racconto non era grande come Penny Wirton, ma era un'ulteriore conferma, e il fatto che fosse incompiuto - seppure leggibilissimo - accre­sceva l'amaro del fatto che D'Arzo avesse trovato a soli trentadue anni «la strada di casa».

In «Una storia così» ­ che è un racconto composto probabilmente alla fine degli anni Quaranta, di cui ci è pervenuta soltanto la prima parte, in sette capitoli - si raccontava di un collegio alla Dickens, il «Premiato Collegio Minerva», condotto da Tobia Corcoran, direttore dagli orizzonti ampi quanto quelli del signor Thomas Gradgrind di «Tempi difficili» di Dickens. Come Gradgrind aveva in testa che «in questa vita non abbiamo bisogno d'altro che di Fatti, signore: niente altro che Fatti!» e «Louisa, non immaginare mai!», il Tobia Corcoran di Una storia così «aveva in testa soltanto un'idea (...) Ed ecco qui la sua idea: «Uno studente dai sei anni in avanti non può compiere azione più immorale, malvagia, spregevole, pericolosa, allarmante che leggere libri che non siano i tre libri di testo. E a sua volta un maestro dai vent'anni in avanti non può compiere azione più infamante, allarmante, pericolosa, spregevole, malvagia, immorale che far leggere libri che non siano i tre libri di testo».

Però un giorno accade una cosa; anzi, due. Accade che il signor Corcoran si ammali, e lasci un appunto con la prescrizione delle dosi di analisi logica e di geometria e di calcolo da somministrare ai ragazzi in sua assenza, nonché una ulteriore nota accoratamente specifica relativa al divieto assoluto dei libri. Ma capita anche che arrivi al Premiato Collegio Teddy Tedd, Maestro Supplente che per avere qualche soldo con cui comprarsi una giacca si era messo a scrivere un grosso romanzo. E Teddy Tedd, alla faccia del signor Corcoran, appena arrivato al collegio, «fece scendere tutti quanti i ragazzi in giardino: li portò proprio dietro lo stagno, dove alberi e siepi eran più fitti e più folti che mai, e distribuì un libro a testa. - Ecco qua. Per un mese non farete altro che leggere questi: lo prescrive il nuovo programma. (...) E adesso, buon appetito». Si capisce che molte cose cambiarono: «I ragazzi non facevano che leggere e leggere, e giocare a quel che avevano letto: ed eran tutti più allegri che mai». E ogni sera, quando i ragazzi rendevano i libri al Supplente, «nella stanza di questi si ripeteva la medesima scena. Il primo a sbucar fuori era Tarzan (...) dopo un po' tutti gli altri: Alice, col suo Coniglietto, Pinocchio, i tre Porcellini, La Bella Addormentata nel Bosco, Mowgly, Davide Copperfield, il piccolo Lord Fauntleroy, Topolino, i Nani di Gulliver, John Silver, Jimmy Hawkins, il dottor Jeckill e Robinson Crusoe, e, insomma, un bel sacco di gente».

Seppure nella sua incompiutezza, anche Una storia casi è un testo rappresentativo di una poetica rintracciabile in tutto D' Arzo, una poetica in cui il fiabesco e il magico impregnano i sentieri dei versanti del dire, e il mistero che permea i versanti del vivere perdura ben oltre i disvelamenti.

L'importante articolo di Macchioni Jodi parlava anche di Gec. Ne parlava, è vero, considerando una sola cosa Gec e Gec dell'avventura - mentre quest'ultimo, come ha precisato Anna Luce Lenzi in una nota del Carteggio D'Arzo-Vallecchi, era uno dei titoli che D'Arzo provvisoriamente appose a quel che sarebbe poi diventato Penny Wirton e sua madre - ma, al di là dell'equivoco, Macchioni parlava di una storia precisa, e ne parlava raccontandone ampiamente la trama, senza lasciare margini di dubbio. Macchioni scriveva che in Gec, «ancora un po' acerbo nella struttura e nello stile«, D'Arzo faceva «confluire ingredienti di diversa estrazione>>, sovrapponendo a «una trama narrativa prevalentemente legata ai fasti della tradizione animalista quella in qualche modo collegabile alla dissacrazione delle Ghost-stories posta in atto, fra gli altri, da Oscar Wilde nel Fantasma di Canterville. Ne deriva che il suo fantasma, non appartato, per ragioni professionali, come quello wildiano, ma inserito nella vita corrente, ancorché alquanto anomala per l'equiparazione dei comportamenti fra uomini (in minoranza) ed animali, non ha alcuna velleità terrificante, ma, anzi, mansueto e provvisto di un apprezzabile senso di socialità, ama stare con gli altri, si adatta alle loro abitudini, alle loro voglie, talvolta stravaganti. Fantasma, dunque, casalingo ­ nel senso migliore -, è emotivo e puerilmente nostalgico. Si affeziona ad un pesce giapponese vinto al luna park, si diverte sul cavalluccio di una giostra perché gli dà l'illusione di rivivere i suoi giorni felici, lontani di secoli. Personaggio essenzialmente triste, che nell'economia del racconto ha un ruolo minore, dapprima fra i pipistrelli (<<i coniugi Pipistry>>), nel castello di Tartarucchi, infine attore in una compagnia teatrale che, rappresentando l'Amleto, gli affida la parte che gli è naturalmente congeniale. Il protagonista è Gec, il bambino che non vuol nascere <<con la camicia>>, simbolo proverbiale della fortuna. Si capisce che nel rifiuto, che comporta una volontà attivistica (la fortuna uno se la deve conquistare da solo, non possederla per diritto di nascita), risiede la morale del libro, dietro la quale non è difficile intravedere una matrice autobiografica, ove si tenga conto che l'autore, nato povero e senza padre, veramente <<senza camicia>>, aveva dovuto farsi da sé. È uno dei pochi personaggi appartenenti al versante umano ed è fatto agire in una condizione prenatale, quindi del tutto anomala, anche se di fatto non distinguibile da quella di un ragazzo qualsiasi. Del resto, nonostante la funzione primaria, la sua presenza si limita a pochi interventi, dal tentativo iniziale di nascita, subito fatto rientrare per la minaccia di dover indossare l'indumento ch'egli respinge con decisione, ad una serie di fughe provocate dal ripresentarsi della stessa minaccia. Solo alla fine, dopo aver trovato rifugio, in qualità di suggeritore, nella stessa compagnia teatrale presso la quale finisce il fantasma, egli può nascere, senza camicia, secondo il suo volere. Gli altri personaggi sono animali parlanti, ma senza alcun sussiego pedagogico: l'usignolo, che, divenuto amico di Gec, ne va alla ricerca ogni volta che fugge; la cicala e la formica, nel ruolo di giornalisti-investigatori, secondo un cliché abbastanza divulgato, anch'essi sulle tracce di Gec; il bruco cavolaio, che esercita la professione di sarto alla moda; lo Scarabeo, <<Maestro Albert Scara>>, artista «di eccezionale levatura, oltre che di nobili, antichissime origini«.»

Anche Gec non era sicuramente una storia all'altezza di Penny Wirton, almeno per quel che se ne poteva capire leggendo l'articolo di Macchioni, il quale peraltro sottolineava che «se sul piano strutturale Gec si dipana abbastanza scioltamente sotto la spinta di un'immaginazione che si sintonizza su alcuni motivi tradizionali, sul piano stilistico esso si mantiene di qua dal linguaggio più tipico e personale di D'Arzo. Parrebbe quasi che, preoccupato di riuscire accessibile al piccolo lettore, rinunci agli estri, alle cadenze che meglio lo caratterizzano, magari a costo di apparire frettoloso o banale, col risultato di suscitare l'impressione di trovarci di fronte ad una testimonianza appartenente alla sua preistoria». Non poteva essere Penny Wirton, d'accordo, ma era un'altra conferma, o una serie di conferme. E a me, nello specifico, premeva anche l'aspetto «quantitativo»: scrivere «per i ragazzi» non era stato per D'Arzo un episodio isolato. Forse, addirittura, annidate chissà dove, esistevano altre storie, ancora.

Di Gec, però, poi non seppi più nulla. Oltre Macchioni, ne parlò soltanto Anna Luce Lenzi: al Convegno darziano del 1982; in Silvio D'Arzo, l'isola e il mondo (contenuto in Scrittori nei due ducati, Comune di Montecchio Emilia, 1986), poi nel Carteggio D'Arzo-Vallecchi. E anche Anna Lenzi, ma da un punto di vista diverso, sottolineava come Gec si presentasse non risolto: «L'assunto principale, il non voler nascere privilegiati, è proposto semplicemente come un «capriccio» su cui riflettere: ma difficilmente un bambino, cui la grazia e la libertà di fantasia sembrano rivolgersi, potrebbe capire tale rifiuto e godere dell'immedesimazione nell'aspirante self-made-man, il «tra-qui-e-Ià» Gec, assai meno bambino del pinguino e del castoro dei successivi racconti».

Si, certo, non poteva essere del livello di Penny Wirton, però mi sarebbe molto piaciuto leggerlo, l'inedito Gec. Poi, un giorno, successe una cosa. Mi trovavo in una piccola cittadina e curiosavo svagatamente in una libreria che allineava sugli scaffali, secondo criteri indecifrabili, libri di ogni tipo e d'ogni tempo: libri appena usciti, libri introvabili, pezzi di antiquariato, poesia, fumetti. saggistica, gialli, manuali del pescatore, guide turistiche, classici della filosofia. Uno stordimento, insomma.

Mi capitò di posare lo sguardo sulla costa bianca di un libro. Sfilandolo, la copertina mi lasciò indifferente: brutta illustrazione, autrice sconosciuta, editore Morano. Riposi il libro e andai oltre. Qualche metro più avanti, però, cominciò a rodermi un tarlo. Non un pensiero; una «cosa» indistinta, un po' come se fossi rimasto impigliato e mi sentissi trattenere. Ripresi il libro dallo scaffale e, nonostante una seconda occhiata senza vita alla copertina, lo aprii. E fu un colpo secco.

Incipit: «lo sono nato con la camicia e mi trovo benissimo. Se scrivo un libro, c'è subito chi me lo stampa; se chiedo al cameriere un pezzo di torta mi capita quello con la ciliegina candita; se gioco alle corse dei cavalli, perdo è vero, ma trovo sempre chi ha perduto più di me. lo dalla vita non ho avuto amarezze e se dovessi rinascere, sempre vorrei rinascere con la camicia. Perciò ho trovato stranissima la storia di Gec, il bambino che non voleva nascere con la camicia.»

Gec. Non poteva esser altro che Gec, il cui incipit ricordavo perfettamente per averlo letto e riletto mille volte nei saggi di Macchioni Jodi e di Anna Luce Lenzi. E cosi acquisiva significato anche il titolo del libro: Una camicia per Gec ­ scelta redazionale o reperto delle carte di D'Arzo, aveva poca importanza. Quel che importava era che si trattava di Gec. E non solo: quel che mi impressionava era che nel 1960, cioè lo stesso anno della pubblicazione del vallecchiano Nostro lunedi curato da Macchioni Jodi e a otto anni dalla morte di D'Arzo, l'editore Morano ne pubblicava un libro di cui nessuno si era accorto, di cui nessuno sapeva nulla. Ma c'era ancora dell'altro, ed era la scoperta dell'ennesimo pseudonimo di Ezio Comparoni. Ora, nella lista, a Silvio D'Arzo, Raffaele Comparoni, Andrew MacKenzie, Sandro Nedi, Sandro Nadi, Ignoto del XX secolo, Oreste Nasi, Andrea Colli, Aldo Colli, Aldo Collin, si aggiungeva quest'altro: «Mariangela Cisco». Che si trattasse di pseudonimo femminile non era troppo strano; pur senza mai individuarne alcuno, almeno una volta D'Arzo stesso aveva ipotizzato di servirsene.

Ma, subito, all'euforia della scoperta si affiancò un sospetto torbido. Il sospetto che non di pseudonimo si trattasse, bensì di appropriazione indebita, furto, trafugamento, plagio. In effetti, qualche giorno dopo, una sommaria ricerca in biblioteca mi fece scoprire che Mariangela Cisco era una persona reale: oltre a Una camicia per Gec aveva pubblicato nel 1971 un libro da Rizzoli, L'ultima cicogna, nella collana <<I Gemelli>> curata da Giovanni Arpino. Mi rivolsi a Maurizio Festanti, direttore della Biblioteca Municipale «A. Panizzi» di Reggio Emilia, presso la quale sono conservate molte carte darziane, per poter leggere l'inedito Gec. Festanti mi rispose che Gec non si trova tra le carte possedute dalla Biblioteca di Reggio, e potrebbe essere tra i materiali di D'Arzo detenuti dalla inavvicinabile vedova di Macchioni Jodi.

Imboccai allora un'altra strada. <<Ringrazio Carlo Carena e l'editore Einaudi per avermi concesso la lettura del dattiloscritto inedito Gec>>, aveva scritto Anna Lenzi in una nota del suo saggio Silvio D'Arzo narratore per ragazzi. E io chiesi AlIa Lenzi, e a Carena, e all'Einaudi, ma nessuno aveva quel dattiloscritto. Poi finalmente, riuscii ad averlo, su indicazione della Lenzi, dalle edizioni Quodlibet di Macerata (casa editrice che sul n. 32/1995 di «Marka» ha pubblicato alcune pagine di Cec). Le differenze tra il dattiloscritto e il libro pubblicato da Mariangela Cisco con Morano sono minime, e potrebbero essere definite come interventi di semplificazione e banalizzazione. Per esempio, un «istrione» si trasforma in «imbroglione»; un ragazzino «linfatico» diventa «malaticcio»; «macabra» diventa «triste»; «le physique du ròle» diventa «la taglia adatta»; «una pila di 'rese'» diventa «una pila di giornali vecchi»; «aveva dato parola» diventa «aveva promesso»; delle bellezze «perverse» diventano «perfide»; l'usignolo «famoso cantore» diventa «famoso cantante»; scompare una «catarsi»; scompare «era diventato il loro Petronio»; scompare la considerazione che «gli avvocati in genere sono dei filibustieri»; scompaiono completamente i pensieri di monsieur Pipistry mentre guarda riviste francesi illustrate (e questa scomparsa non fa capire cosa significhi il suo abbandonarsi segretamente alla nostalgia, schivando la petulante moglie): «Balletti, canzoni, PIace Pigalle, il 14 luglio, Juliette Greco, eh! anche la Francia aveva i suoi Iati buoni» - pensieri troppo rivoluzionari? troppo solleticanti? troppo «maschili»?

Inoltre, qualche passo è rimaneggiato, e là dove il dattiloscritto dice che le api erano noiose e «troppo di sinistra» il libro dice che «si occupavano solo di questioni sindacali». Ma questi sono soltanto alcuni esempi; io mi fermo qui. Dovranno essere studiosi seriamente attrezzati di competenze specifiche a puntigliosamente ponderare il tutto, e cercare di appurare qualche verità. È certo infatti che esse ben difficilmente possono essere individuabili dagli innamorati; altrettanto certo è però che il chiarimento debba avvenire, se non altro per sciogliere il dubbio che Mariangela Cisco sia stata uno squallido sciacallo capace solamente di ghermire dentro le macerie della sguarnita casa devastata.

Trovare Mariangela Cisco non era facile: da Morano mi dissero che era trascorso troppo tempo (1960!); da Rizzoli mi diedero un indirizzo romano, aggiungendo però che probabilmente si trattava di un recapito inutilizzabile perché nel 1976 una lettera era stata rispedita in casa editrice essendo il destinatario sconosciuto a quell'indirizzo. Arpino era morto. Morano era morto. Macchioni lodi era morto. Sottosopra la Vallecchi. Inavvicinabile la vedova di Macchioni.

Poi, purtroppo, venni a sapere, da suo fratello, che Mariangela Cisco non c'era più. Se poi il dubbio riguardante Mariangela Cisco si dovesse sciogliere a suo favore, altrettanto importante sarebbe chiarire se l'attribuzione di Gec a D'Arzo sia dovuta a un abbaglio di Macchioni Jodi o a che altro. Non si può escludere forse nemmeno qualche confusione vallecchiana: nel luglio 1977 una lettera della Direzione Editoriale della Nuova Vallecchi Editore a Macchioni Jodi diceva: «Cogliamo l'occasione per restituirle insieme ai tre dattiloscritti di D'Arzo che ci richiede, anche altre carte ancora giacenti nei nostri archivi». E seguiva un elenco di quattro titoli in cui, oltre a Penny Wirton, il Pinguino e Tobby in prigione, compariva anche, e al primo posto, il titolo Pick. Molto probabilmente quest'ultimo è solo un refuso per Gec, ma in ogni caso è un segnale che allarma, per diverse intuibili ragioni. Inoltre sarà opportuno tenere presente che Mariangela Cisco era in qualche modo in contatto con Vallecchi (fra l'altro, editore in quegli anni di almeno un libro del fratello) se in una lettera del 1963 poteva scrivere che, per aiutarla nella «gran fatica di trovare un editore», Vallecchi le aveva consigliato di partecipare al Premio Laura Orvieto.

Le carte di D'Arzo venivano restituite a Macchioni sulla base di un dattiloscritto, datato 31 gennaio 1962 e firmato da Rosalinda Comparoni, nel quale la madre di D'Arzo disponeva che «i manoscritti, le carte e le pubblicazioni di mio figlio Ezio (Io scrittore noto con lo pseudonimo Silvio D'Arzo) siano consegnati al dott. Rodolfo Macchioni Jodi, attuale vicedirettore della Biblioteca Municipale di Reggio Emilia». Bisogna dire che Macchioni non si è mai scatenato a cercare di pubblicare qualunque cosa; anzi, si potrebbe quasi affermare che sia avvenuto il contrario - in ogni caso si risentì quando Paolo Lagazzi curò per Garzanti la pubblicazione di Essi pensano ad altro, e cercò di ostacolare il progetto di ulteriori pubblicazioni per lo stesso editore. E naturalmente i processi alle intenzioni non si possono fare, cosi non è possibi­le concludere davvero qualcosa a proposito delle ragioni delle sue cautele. Non è possibile, per esempio, stabilire se esse fossero dettate dal convincimento da lui espresso nella presentazione dell'inedito Un ragazzo d'altri tempi, sul n. I3/1983 di «Contributi», là dove diceva di non essere mai stato entusiasta «della curiosità, certo innocente e in qualche caso meritoria, che spinge a frugare fra gli "scartafacci" di uno scrittore per portarne alla luce qualche abbozzo, opere inconcluse o anche complete che, salvo casi eccezionali (in primo luogo quello della morte che ha troncato il lavoro in fieri), si collocano nell'ambito dei suoi rifiuti». Altrettanto impossibile è stabilire se quelle cautele fossero invece ispirate, almeno in parte, anche dal voler mantenere una «esclusiva» delle carte darziane che sentiva forse precaria, e come intaccata dall' avvertire quasi «concorrenziale» l'interesse per D'Arzo di altri studiosi, essendo per di più di labile valore legale il documento con cui la madre di D'Arzo gli aveva lasciato le carte del figlio (una dichiarazione battuta a macchina, non di pugno della firmataria, senza alcuna registrazione di autentica; il venir meno dell'incarico presso la Biblioteca di Reggio).

È evidente che si rende necessario che la questione sia affrontata da filologi seri. Quel che a me sembra di poter dire è che leggendo Gec ci si trova ben lontani dal D'Arzo «stevensoniano» di Penny Wirton e sua madre, ma questo, evidentemente, non cambia nulla. l Iimiti di questo ingenuo Gec, d'altra parte, erano stati individuati sia da Macchioni sia da Anna Lenzi. E se ne potrebbero aggiungere altri, ma non è questo il punto. Il punto è invece un altro. Si tratta della necessità di non dimenticare Silvio D'Arzo, di studiarlo, di evitare di rinchiuderlo nella pur dorata gabbia della irripetibilità di Casa d'altri, di evitare che l'assenza di eredi ne faccia sorgere di arbitrari e indebiti o assecondi svariate trascuratezze.

Medesimo discorso vale a proposito del D'Arzo «per ragazzi», soprattutto pensando che anche «Penny Wirton» è a suo modo «irripetibile». «Penny Wirton e sua madre» e la storia di un ragazzo che vive solo con la madre nella contea di Pictown, luogo immaginario quanto lo è il Settecento in cui è collocata la vicenda. Vicenda da leggersi senza intermediari, e che quindi non racconterò. Dirò solo che, oltre a Penny e sua madre, ci sono i suoi spocchiosi compagni di scuola; il Supplente, «Baccelliere d'Arte e maestro di scuola»; il Cieco, un mendicante cantastorie imbroglione che diffonde immani panzane e scomode verità; l'oste della locanda di Shorly; il Cancelliere di Villa, il Primo Intendente, il Referendario, il Procuratore Signifero, il Maestro Aulico, i briganti della Compagnia del Coltello; e c'è una commedia che salta, ed un rapimento, e una fuga da casa, e bambini che non nascono più, ed un Cancelliere che sbianca di fronte ad un certo biglietto e allora ritira l'accusa, cosa che fanno anche il Primo Intendente di Villa e poi anche il Vice e il Consigliere di Prima e Ultima Istanza. E c'è la Collina, e lassù, dietro un cancello, ogni notte i morti parlano a lungo - quelli che qualcuno ricorda, perché chi sfuma dalla memoria dei vivi svanisce nel nulla. E sulla Collina, là, dietro al cancello, c'è il padre di Penny, e sua moglie ogni notte si reca a parlargli, e discutono a lungo perché lei ha detto al figlio: "Nessun uomo (di questo puoi stare tranquillo) valeva l'ombra del suono del tacco del tuo povero padre. Con un pezzo di sciabola in mano e un cavallo sotto di sé, sapeva fare cose da libro, da cantarsi alle fiere per anni. Come del resto è accaduto. E prima di marciare per la brughiera di Fellow, dove doveva cadere, per tradimento o disgrazia o tutti e due messi insieme (perché mai una causa soltanto riuscì ad avere ragione di lui), mi disse questo e nient'altro: "lo voglio che mio figlio sappia un giorno combinar tante cose da farmi vergognare delle poche che ho fatto..." Capisci lo stile, ragazzo? Beh, questo era tuo padre». E lui invece vorrebbe che Penny sapesse la verità, ché il suo idolatrato padre non era altro che un povero sellaio. Verità che Penny, per caso, un giorno scoprirà, e ne deriveranno conseguenze che qui non dirò. Non le dirò soprattutto perché è meglio gustarlo nella limpida lingua del suo autore, questo bellissimo libro «per ragazzi». E a tutti coloro che al solo pensiero di questa «categoria» storcano il naso, vorrei ricordare quel che scrisse in proposito Attilio Bertolucci su «la Repubblica» nel febbraio 1978: «I grandi, cui oggi caldamente raccomando il libro, spero non abbiano il palato cosi guasto da trovare Penny Wirton un tantino, come dire, semplice. Mi credano, è molto più complesso e labirintico di quel che non sembri, anche se risolto con solare chiarezza, giusta la lezione di quel Robert Louis Stevenson da Silvio D'Arzo tanto amato».

Sì, la sintonia di D'Arzo con Stevenson si è espressa nella sua cifra più alta proprio in "Penny Wirton e sua madre". Un libro, questo, pubblicato da Einaudi soltanto nel 1978 ma databile al 1948, sulla cui prolungata e complessa stesura, e su quel che per D'Arzo rappresentò, si può leggere molto nel carteggio con Vallecchi. Un libro che sicuramente costituisce un documento importante anche nella dolorosa vicenda biografica di D'Arzo, ma che testimonia esemplarmente di quale considerazione effettiva egli avesse dello scrivere "per ragazzi".

Penny Wirton e sua madre è a mio parere il più bel libro «per ragazzi» scritto in lingua italiana dopo Pinocchio. Il più bello e il più intenso, e il più duraturo. Un libro carico di contenuti forti ma assolutamente privo di pesantezze e moralismi; un libro che in piena levità si distende sulle vicende interiori e sulle dinamiche sociali senza mai cadere nella precettistica e nella noia. Un libro in cui a Silvio D'Arzo è riuscito quel «miracolo» che lui stesso aveva sottolineato parlando dell'Isola del tesoro: «Perché Stevenson sapeva una cosa importante: che ai nostri tempi, ai tempi «dei più savii giovani d'oggi», una sola condizione è rimasta per cui si possa accettare anche il più poetico dei c'era una volta: che sia documentato anche più di una storia o una cronaca. (...) Ma ne sentiva una anche più importante: che la più ben congegnata invenzione, il più logico e conseguente sviluppo degli avvenimenti, lo stesso senso della proporzione, cosi mirabile in lui, potevano finir col creare un che di lontano dall'avventura e dall'arte come lo è dalla vita anche la più saggia delle sagge sentenze di Polonio. Che per trovare logica un'avventura occorre un alito di illogicità. Che, insomma, per «credere» veramente a una favola occorre in fondo che sia un poco incredibile».

Eppure, nonostante tutto, Penny Wirton è sostanzialmente misconosciuto. Bertolucci, in quello stesso articolo, lamentava che l'editore Einaudi avesse scelto di «ghettizzare il mirabile racconto nella pur ottima collana «Struzzi Ragazzi»». Aveva semplicemente ragione. Perché quella scelta, sicuramente ispirata da intenzioni nobili, non poteva che portare a conseguenze doppiamente disastrose: da una parte allontanare il lettore adulto, diffusamente convinto di non doversi abbassare ai livelli della cosiddetta letteratura per l'infanzia; dall'altra non arrivare mai ai ragazzi. E invece avrebbe dovuto avvenire esattamente il contrario. Anzi, a me sembra che questo sia uno dei casi in cui è opportuno, o necessario, che un editore non si dedichi solo ai propri conticini e sappia osare la doppia edizione, una «per ragazzi» e una «non-per-ragazzi». Perché è verissimo quel che sosteneva Bertolucci, che «Penny Wirton andrà collocato fra L'isola del tesoro e Huck Finn: che stanno sia nella biblioteca dei ragazzi che in quella dei grandi. Libri sfuggenti e alati, possono spostarsi dall'una all'altra perché hanno la natura di Ariele»

Ma altrettanto vero è che siamo pervasi di cultura del pregiudizio e del preconfezionato o precotto, e per far si che una propria lettura passi a figli o allievi è necessaria una piuttosto rara «buona volontà»: quella che si fonda e si sviluppa su una complicità, tra adulti e ragazzi, che, consapevole della propria sostanza di gesto d'amore, si manifesta nel passarsi a vicenda, con discrezione e serena determinazione, l'acqua della vita nelle sue variegate versioni - e tra queste una parte importante hanno le parole e le storie. Ai figli, agli allievi, agli amici d'età verde o verdissima non mi pare che basti fornire qualcosa di che sopravvivere: sarà necessario dar loro anche il mare e il vento e le nuvole e le montagne, cioè anche libri, che so?, come Harun e il Mar delle Storie di Rushdie, Il diavolo nella bottiglia di Stevenson, Il paese dei ciechi di Wells, Ci sono bambini a zigzag di David Grossman, Il prigioniero nel Caucaso di Tolstoj, Lazarillo de Tormes. Libri come Penny Wirton e sua madre, per esempio. Ma, beninteso, ben alla larga dalle paludi dell'editoria scolastica.