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            Gli
            orizzonti inaspettati di Silvio D'Arzo 
              Parlando
              di quel grande bellissimo libro che è La Storia,
              Pasolini accusava
              Elsa Morante di
              avere peccato di pigrizia e di «non amore» nei confronti
              dell'apparentemente tanto amato personaggio Davide Segre, Scriveva
              infatti che «il parlato di Davide non ha riscontro in nulla: il
              ragazzo si presenta come bolognese, in realtà è mantovano, ma
              parla una specie di
                veneto. Non c'è tuttavia angolo nell'Alta
              Italia in cui cadere si dica cader'» e quindi il fatto «che
              Davide dica cader è offensivo per il lettore: ma è
              soprattutto offensivo per lui».
              
               Elsa
              Morante è sicuramente tra i più grandi scrittori, ma queste
              parole dure e definitive erano soltanto dolorosamente giuste.
              Nonostante si trattasse di un grande bellissimo libro quelle
              parole andavano dette.
              
               E
              cosi, se per un peccato di questo tipo non si poteva assolvere
              nemmeno Elsa Morante, tantomeno, per qualcosa di analogo, potrà
              essere assolto Biagio
              
               Laprea - curatore
              di una edizione di un libro bellissimo di quel grande scrittore
              misconosciuto che è Silvio D'Arzo, Penny Wirton e sua madre, pubblicato
              da Einaudi Scuola nella collana «Nuove letture» - curatore che
              spiega, in una nota ad uso della costumata gioventù cui il libro
              è rivolto, che cosa facesse il locandiere di Shorly quando «radeva
              il formaggio».
              
               Essendosi
              cimentato non solo con il proprio friulano e con le borgate romane
              ma anche con quel Canzoniere italiano (Guanda '955,
              disponibile ora da Garzanti) che raccoglieva dialetti e parIate di
              ogni angolo, e non solo dell' "Alta Italia», Pasolini aveva
              evidentemente qualche titolo per poter negare l'esistenza di un
              verbo in qualche parte di mondo. Di questi titoli io invece non ne
              possiedo alcuno, e quindi il mio ergermi a giudice ha
              probabilmente a che fare con la presunzione, ma devo dire di
              essere vissuto per un consistente numero d'anni in un paese
              dell'Appennino tosco-emiliano - un paese che somigliava molto ai
              luoghi di certe storie di D'Arzo e non ne distava che qualche
              vallata 
              
               dove
              ho avuto modo di vedere abbondantemente che cosa facesse chi «radeva
              il formaggio», E quando, dopo tredici anni trascorsi lassù, sono
              sceso in città per studiare, tra quella città e quella in cui D'Arzo
              era vissuto c'era qualcosa come venti chilometri, e anche li chi
              «radeva il formaggio» era come su ai monti. Sia li che lassù
              chi «radeva il formaggio» altro non faceva che grattugiarlo.
              
               E
              poi basterebbe fare un salto, o anche soltanto una telefonata,
              nella provincia di Reggio Emilia, per scoprire come ancor oggi
              quei dialetti intendano ancora lo stesso; e D'Arzo conosceva
              
               bene
              i dialetti di quelle parti, essendosi laureato
              a Bologna nel 1941 con
              una tesi di
              filologia relativa appunto a dialetti di alcuni paesi
              dell'Appennino reggiano  Aggiunte e correzioni all'A.I.S. per il
              
               centro 444, tesi
              di laurea che ora è stata pubblicata a cura di Lando L. Landini,
              
               con il nome di
              Ezio Comparoni, il nome vero, essendo infatti «Silvio D'Arzo»
              solo uno dei tanti pseudonimi di cui D'Arzo si servì. E lo stesso
              Landini, in
              
               AA.VV., Silvio
              D'Arzo. Uno pseudonimo per legittima difesa, Editrice Bertani
              & C., Cavriago 1994, racconta come D'Arzo gli avesse un giorno
              fugacemente spiegato come quello pseudonimo stesse a indicare
              semplicemente le sue origini: «arzàn», in dialetto, significa
              infatti reggiano.
              
               Invece il curatore
              dell'edizione scolastica del bellissimo Penny di D'Arzo, in
              una nota relativa al «radeva», e in ogni caso di per sé
              solamente superflua, scrive che l'oste di Shorly quel formaggio lo
              «tagliava». Pigrizia, direi, e direi anche offensiva per la
              costumata gioventù cui si rivolge, nonché per quell'oste e per
              il povero autore - per di più impossibilitato a difendersi,
              essendo egli morto nel 1952 in quella stessa Reggio Emilia in cui
              era nato nel 1920.
              
               È
              evidente
              che una nota inutile e sbagliata potrebbe anche essere qualcosa su
              cui tranquillamente sorvolare, ma D'Arzo era attento ai versi e ai
              gesti e alle voci come un cane da caccia o anche due, e niente
              l'ha messo lì a caso, e guardava davvero quello che raccontava, e
              stava finanche a contare le sillabe, ché fossero giuste, non una
              di meno. E neanche di più.
              
               Ma quel che
              davvero mi sembra importante denunciare non è tanto quella nota
              sbagliata o la pigrizia di un curatore (e voglio tacere della
              brutta, stonata copertina); il guaio vero è che di un libro come Penny
              Wirton e sua
              madre sia stata
              fatta l'edizione scolastica, con tanto
              di note e di «Percorsi
              di lettura».
              
               Nel caso specifico
              questi sono due: si chiamano "Percorso A» e «Percorso B»,
              il primo fatto di domande secche secche,
              il secondo più
              disteso, entrambi lì pronti per le «fasce di livello» e il culdipiombismo
              docente.
              
               Certo,
              la questione degli «apparati didattici», dei «suggerimenti per
              le tue ricerche», delle note a piè di pagina, dei questionari e
              dei giochi allegati a romanzi racconti fiabe
              leggende poesie, insomma la questione delle edizioni scolastiche
              è una questione che
              richiede
              sicuramente qualcosa di più delle sommarie parole di condanna
              pregiudiziale, di principio,
              che qui vorrei comunque ribadire. E se poi è anche vero che ci
              sono insegnanti che hanno molto bisogno d'aiuto e che non sono in
              grado di prendere un libro e di farci qualcosa,
              questa è un'altra questione che merita qualche
              parola specifica, ma non si capisce
              perché a fare
              le spese di una
              realtà sconfortante
              debba esser per
              forza una storia.
              
               E però,
              se l'edizione scolastica di un libro è sempre un
              problema, nel caso di D'Arzo
              lo è ancora di più.
              
               Un libro
              impregnato di scuola è un libro ammansito, è meno dell'ombra
              del
              
               suono del
              tacco, e infatti cammina con gambe non
              sue. E se può esser vero che un libro impregnato di
              scuola si predispone a essere forse più
              conosciuto e comprato,
              è vero altrettanto che è molto
              difficile che possa
              diventare un libro
              amato.
              
               In
              questo caso il problema è ancora più grande che mai, perché
              Silvio D'Arzo merita meno di
              altri questa fine. Oltre ad
              essere un grande scrittore misconosciuto, D'Arzo era anche una
              persona con idee singolarmente chiare sulla scuola, sulla lettura,
              sulla scrittura, sulla cosiddetta letteratura
              per !'infanzia, sulle
              storie per i ragazzi, sulla possibile funzione
              delle storie nella vita;
              ma nessuna di queste aveva qualcosa a che fare con gli
              ammansimenti. Potevano avere a che fare con certe debolezze,
              con certe ipervalutazioni della Letteratura, per esempio, ma
              non certo con gli ammansimenti. Anzi, una delle caratteristiche di
              D'Arzo è proprio quella della radicalità degli intenti. E, a
              proposito di scuola,
              basti dire che D'Arzo aveva
              espresso l'intenzione di scrivere una storia
              con un «Buon
              Pirata che,
              vecchio ormai,
              sfinito, abbandona
              ai flutti la sua vecchia nave: si
              fa col legno della
              «vecchia nave» la gamba di legno:
              gamba di legno che, lui morto, si pianterà in un albero
              di terra, e verrà su,
              dopo un poco, albero grande dove sorgerà la vecchia,
              indimenticabile Scuola di Pictaun».
              
               Inoltre
              bisogna ricordare che nella Prefazione a quella che avrebbe dovuto
              essere
              la sua opera più articolata
              e ampia, il romanzo
              Nostro lunedì, D'Arzo scriveva:
              «Forse la prima
              ragione per cui ogni cosa ha diritto sempre ad
              un po' di rispetto
              è proprio quella di avere una storia».
              
               La Prefazione a Nostro
              Lunedì comparve
              per la prima volta
              nel 1960, in un importante volume antologico intitolato
              Nostro lunedì e
              curato da Rodolfo Macchioni
              Jodi per le
              edizioni Vallecchi. Volume introvabile ma
              ancor oggi molto importante,
              in quanto si tratta della raccolta
              più ricca di
              scritti darziani, essendo
              composto da racconti, poesie e saggi. Inoltre si tratta dell'unica
              possibilità di leggere un racconto come L'osteria, mai
              ripubblicato in
              nessuno dei libri che
              in questi anni hanno
              variamente riproposto gli altri scritti contenuti nel volume
              Vallecchi e alcuni inediti.
              
               La
              più recente raccolta è L'aria della sera e altri racconti, curata
              da Silvio Perrella per i Tascabili
              Bompiani nel 1995
              e contenente i racconti
              brevi, una redazione
              della storia «per ragazzi» Il pinguino
              senza frac, la
              Prefazione a Nostro
              lunedì, il prodigioso Casa
              d'altri. Questo
              straordinario racconto si trova anche nei «Nuovi Coralli» di
              Einaudi, in un'edizione
              
               tanto elegante
              quanto carente di coordinate, sia
              
               sull'autore sia
              sul suo capolavoro. Il libro curato
              
               da Perrella
              contiene anche un racconto, Piccolo
              
               mondo degli
              umili, proveniente
              dal primo libro di
              
               D'Arzo, uscito da
              Carabba
              
               nel 1935, Maschere,
              riproposto interamente, insieme agli incompiuti L'uomo che
              camminava per le strade
              e Un ragazzo
              d'altri tempi, in un libro,
              cui quest'ultimo racconto dà il titolo complessivo, pubblicato da
              Passigli
              
               nel 1994.
              
               Poco
              prima, nel 1993, era uscito da Quodlibet un libro, curato da
              Daniele Garbuglia, contenente i racconti brevi, la Prefazione a Nostro
              lunedì e il già ricordato L'uomo che camminava per le
              strade, che dava il titolo al volume.
              
               Di
              All'insegna del Buon Corsiero sono uscite recentemente due
              edizioni: quella di Adelphi, corredata di una Premessa di Enzo
              Turolla e di una Nota al testo di Anna Luce Lenzi; e quella delle
              Edizioni La Vita Felice, che riproduce l'edizione 1988 di Claudio
              Lombardi Editore, con prefazione di Mario Spinella.
              
               E
              risulta ancora disponibile nel catalogo Garzanti, pur essendo
              uscito nel 1976, il romanzo Essi pensano ad altro, curato
              da Paolo Lagazzi e accompagnato da una nota di Attilio Bertolucci.
              
               L'editore
              Diabasis di Reggio Emilia, inoltre, ha pubblicato un prezioso
              cofanetto contenente tre plaquettes: Poesie, Lettere per Ada,
              Una storia così, affiancate rispettivamente da scritti di
              Gianni Scalia, Anna Luce Lenzi e Paolo Lagazzi. Di quest'ultimo,
              sempre presso Diabasis, era uscita in precedenza una raccolta
              di studi darziani, Comparoni e
              
               «l'altro».
              Sulle tracce di Silvio D'Arzo, recante
              in appendice il racconto inedito Una storia cosi risalente
              alla fine degli anni Quaranta e pubblicato da Lagazzi nel 1992 per
              la prima volta nella sua pur incompiuta integrità.
              
               È
              poi importante ricordare che presso Sellerio, nel 1987, a cura di
              Eraldo Affinati, erano usciti i bellissimi saggi di Contea
              inglese, con l'appendice delle lettere di D'Arzo a Emilio
              Cecchi e a Ada Gorini.
              
               Altrettanto
              importante è ricordare che presso l'editore Mucchi di Modena, nel
              1986, era uscito Nostro lunedì -
              di Ignoto
              del XX secolo: un libro ignorato da tutti ma molto importante,
              giacché con esso la curatrice Anna Luce Lenzi, a partire dalla già
              ricordata Prefazione e assemblando racconti pubblicati e frammenti
              inediti, tentava di dare corpo a un più volte accennato, da D'Arzo
              stesso, grosso romanzo, a quelle cinquecento pagine di cui parlava
              nell'ultima sua lettera a Enrico Vallecchi, a una sorta di «Eneide
              del XX secolo» peraltro ben più che intravedibile nella
              Prefazione. Congettura, ovviamente, questa della Lenzi, ma
              sicuramente suggestiva e, quel che più conta, assai argomentata.
              
               Ma il lavoro di
              Anna Luce Lenzi, studiosa vera di D'Arzo, va ricordato tutto, e
              qui in particolare per menzionare la sua appassionata e rigorosa
              cura del cospicuo Carteggio (194I-I95I) tra Silvio D'Arzo e
              Enrico Vallecchi, pubblicato dalla Biblioteca «A.Panizzi» di
              Reggio Emilia come numero doppio della sua rivista «Contributi»
              nel 1984.
              
               Ci
              sono almeno un paio di ragioni alla base del mio attardarmi in
              questa non breve - seppure non esausti
              
              va, e soprattutto volutamente priva di un «capitolo» particolare
              -
              digressione
              bibliografica.
              
               La prima ragione
              consiste semplicemente nel desiderio di propagandare l'opera di
              questo straordinario scrittore, come e cosa del suo lavoro sia
              possibile leggere. La seconda ragione nasce invece dall'esigenza,
              a dispetto di tanta abbondanza, di recriminare, di lamentare
              lacune. Per esempio, perché, dopo il volume vallecchiano del
              1960, non è più stato possibile leggere L'osteria, un
              importante racconto, dei primi anni Quaranta, abitato da alcuni
              personaggi indimenticabili? E perché a nessuno è dato di leggere
              la redazione di Casa d'altri che venne pubblicata da Sansoni nella
              «Biblioteca di Paragone» nel1953? Perché non c'è un editore
              che voglia osare la pubblicazione di un libro composto dalle due
              redazioni di questo impareggiabile
              racconto? In questo modo,
              visto che D'Arzo ha trovato cosi presto «la strada di casa»,
              potremmo essere noi, lettori innamorati o innamorabili, a decidere
              se abbiano avuto ragione Silvio Perrella e l'Einaudi e Macchioni Jodi
              proponendoci di Casa d'altri la redazione da loro pubblicata;
              oppure se abbia ragione Paolo Lagazzi, che si schiera per la
              redazione Sansoni, «con tutte le sue maggiori cautele, con le sue
              più lunghe ironie, con i suoi particolari magici (certi
              bellissimi accessori del vestiario della
              
               Zelinda), perfino
              con certi Iati oscuri, irritati, ancora lievemente infantili
              dell'umanissima
              psicologia del prete» -
              e poi
              
               sarà utile, a
              questo proposito, attingere agli importanti studi di Paolo
              Briganti e di CIelia Martignoni pubblicati in Silvio
              
               D'Arzo. Lo
              scrittore e la
              sua ombra, Atti delle Giornate di studio, Reggio Emilia 29-30
              ottobre 1982, Vallecchi 1984.
              
               E
              ancora: perché, a fianco di tanti piccoli encomiabili e preziosi
              rivoli, non
              
               c'è
              qualche lago? E perché non un mare? Perché non c'è un «tutto D'Arzo»
               che so? - nei Grandi Libri Garzanti, nei Tascabili
              Einaudi, negli Struzzi?
              
               Ho
              trascurato, nella mia digressione bibliografica, il «capitolo»
              riguardante i libri «per ragazzi». Li ho trascurati di
              proposito; e questo non già per assecondare quel sentire
              prevalente che assegna uno status di inferiorità a questo tipo di
              produzione, bensì perché è proprio sul D'Arzo «per ragazzi»
              che intendo soffermarmi. In questo «capitolo» l'elenco dei
              titoli è breve, e le pubblicazioni sono tutte abbondantemente
              postume: Penny Wirton e sua madre, Einaudi 1978; Il
              pinguino senza frac e Tobby in prigione, Einaudi 1983; Una
              storia così, Diabasis 1995. Un elenco però cosi breve da non
              rendere certo l'idea di come e quanto per D'Arzo fosse importante
              questa articolazione del suo lavoro.
              
               Bisogna
              dire inoltre che questo breve elenco è formato da titoli databili
              al finire degli anni Quaranta, ma l'interesse di Silvio D'Arzo per
              la cosiddetta letteratura per l'infanzia è documentato da ben
              prima. Risale infatti al12 febbraio 1943 una lettera di Enrico
              Vallecchi a D'Arzo, nella quale l'editore dice di voler «sapere
              se vi sorriderebbe l'idea di scrivere per conto nostro un libro
              per i ragazzi. Con la vostra fantasia, che si accende anche nelle
              occasioni
              
               più
              modeste, mi sembra che potreste riuscire brillantemente anche nel
              settore della letteratura infantile».
              
               La
              risposta di D'Arzo è non solo
              entusiastica, ma rivelatrice di un interesse già ben
              coltivato: «E veniamo, ora, al libro per
              
              ragazzi. Vi dirò
              senz'altro che la vostra proposta mi fa riaffiorare
              
              un vecchio e mai soddisfatto desiderio
              
              di scriverne appunto uno,
              
              al modo mio. Cinque anni fa circa [cioè almeno intorno al 1938],
              leggendo il Perrault, prima, poi, poco dopo, J. Matthiew Barrie,
              
              scoprii -
              checché il Croce voglia pensarne in merito -
              degli orizzonti insospettati,
              vastissimi, un miracolo nella letteratura per bambini: un campo
              nuovo, o quasi - non credete? - benché di - diciamo -
              coltivazione assai
              
              difficile.
              
               Più volte ci ho
              pensato, vi ripeto, e la vostra proposta mi giunge assai a
              proposito, come una parola dell'amico
              
               che invita a
              lasciare certe timidezze: e - poiché, Iddio volendo, fra due
              mesi, avrò tutto il giorno a mia disposizione -
              mi applicherò
              senz'altro, con un ardore,
              vedrete, affatto nuovo, perché
              
               desidero
              scriverlo, soprattutto, a un
              
               modo mio,
              che non può trovare la sua completa
              espressione se non in un mondo fatto per bambini».
              
               Comincia
              così con questo scambio di lettere, un percorso che durerà anni,
              e sarà avventurosamente costellato di progetti, anticipazioni,
              ripensamenti, dubbi, slanci, insistenze, incomprensioni. E quel
              che Vallecchi aveva acutamente intravisto, cioè il fatto che D'Arzo
              potesse «riuscire brillantemente anche nel settore della
              letteratura infantile», sarà sempre accompagnato dalla
              consapevolezza del rischio che «certi risultati magici della
              vostra prosa» possano dimostrarsi «non adatti per i piccoli
              lettori, i quali non rintraccerebbero il valore evocativo di
              gesti, situazioni, ecc».
              
                D'Arzo
              lavorò molto al «libro per ragazzi», tanto che arrivò a
              scriverne in realtà ben più di uno, e nel carteggio con
              Vallecchi se ne trovano in abbondanza titoli e trame, abbozzi e
              fantasmi, ombre e figure massicce. Quanto ai «risultati magici»
              della propria scrittura, ne tenne ben conto, ma non certo per
              banalizzarsi o impoverirsi, bensì per spendersi ancora di più,
              se possibile, preoccupato di evitare quella «goffa mediocrità»
              che aveva riscontrato nella quasi totalità dei libri per ragazzi
              alla cui lettura si era dedicato. Non è difficile credergli,
              conoscendo lo scrupolo quasi maniacale con cui affrontava ogni
              lavoro; né è difficile capire e condividere quel giudizio
              desolato, pensando a molta desolante produzione italiana del
              periodo. D'Arzo considerava la scrittura un'attività che poteva
              fornire senso all'esistere, non certo un surrogato dimesso del
              vivere, ed era persona troppo seria ed esigente per potersi
              concedere il lusso di assentarsi, seppure temporaneamente o
              parzialmente, dal proprio fondo profondo; inoltre considerava i
              bambini e i ragazzi innanzitutto persone serie. Molto
              probabilmente perché sapeva bene di quanta e quale alterità
              fossero inesorabilmente portatori; e perché altrettanto bene
              sapeva quale ricettacolo di dolore, di disillusioni, di
              immedicabilità potesse essere il tempo dell'infanzia.
              
              
             
              Bisogna
              poi considerare anche il fatto che D'Arzo, come già ricordato,
              aveva cominciato a muoversi nella cosiddetta letteratura per
              l'infanzia a partire da Perrault e da Barrie; progettava «uno
              studio abbastanza lungo su 'Tre viaggi": quello di Gordon Pym,
              quello del capitano Achab di Moby Dick, quello dell'Hispaniola
              di Stevenson»; si accingeva a tradurre Peter Pan; inoltre pensava
              a modelli come il Kipling «senza trombe» delle Storie proprio
              cosi, come Conrad, come Stevenson, «benché, ad esso, io sia
              del parere che viaggi per mare, con pirati e tesori, siano troppo
              pericolosi, dopo che Stevenson ci ha messo le mani».
              
               Purtroppo,
              del progettato studio sui «Tre viaggi» non ci è arrivato nulla,
              ma a Stevenson D'Arzo ha dedicato almeno
              
               due
              saggi nel 1950 (L'isola di Tusitala e
              
               Una morte più
              bella di un poema, ora
              
               leggibili nel già
              citato Contea inglese),
              
               che sono
              bellissimi e molto ci dicono della particolare sintonia tra i due
              scrittori.
              
               Dal carteggio con
              Vallecchi si ricavano notizie su quei libri che in seguito si è
              arrivati a conoscere, ma anche numerosi accenni a trame poi
              abbandonate, o magari sviluppate altrove, e anche forse in qualcosa
              ancora da scoprire, giacché con D'Arzo non si finisce mai di
              scoprire. Ma dal carteggio si ricavano anche strani silenzi, e
              accenni estremamente fugaci, abbastanza inspiegabilmente lasciati
              senza riprese. Per esempio, è solo alla data del 20 settembre
              
               1949 che si trova
              un accenno a «un mio libro per ragazzi Tobia in prigione (una
              storia di castorj), accompagnato dalla rivelazione di averlo «venduto
              per 20
              
               anni a Paravia,
              che me lo ha pagato veramente in misura soddisfacente»; e due
              mesi più tardi, nel dicembre di quello stesso 1949, D'Arzo dice a
              Vallecchi di avere scritto <<un breve libro per ragazzi,
              che, ti giuro, mi ha divertito e riposato assai: Il pinguino
              senza frac>>. E aggiunge: «Non credere che questo sia
              un disperdersi: alla storia del pinguino povero, che non può
              andare nemmeno a scuola assieme agli altri perché è cosi povero
              da non potersi comprare il frac, e se ne va a lavorare per il
              mondo, fra foche e gabbiani, e crede di essere diventato matto
              perché s'accorge che anche l'orso, e anche il terribile uomo,
              piangono come lui, soffrono come lui, sono, in fondo, come lui (e
              in questo tutti gli animali trovano la loro più intima e profonda
              parentela), e ritorna al suo vecchio paese più triste e povero di
              quando era partito, ma ecco che si accorge che gli è spuntato il
              frac più splendido immaginabile (e gli altri, al confronto, sono
              povere e vecchie cose), questa storia, dico, scritta per ragazzi,
              mi ha servito a chiarire molte cose».
              
               Ecco:
              su questi due titoli nient'altro, nel minuzioso carteggio. Eppure
              D'Arzo ruminava a lungo i suoi libri; e questi due racconti,
              pubblicati nel 1983 da Einaudi in un volume della collana «Libri
              per ragazzi» con il titolo Il pinguino senza frac e Tobby
              in prigione (ma una diversa redazione, più breve, del Pinguino
              era stata pubblicata nel 1977 da Anna Luce Lenzi in appendice
              al suo Silvio D'Arzo. Una vita letteraria, Tipolitografia
              emiliana; nel 1985 da Enrico Ghidetti e Leonardo Lattarulo in La
              bottega dello stregone. Cent'anni di fiabe italiane, Editori
              Riuniti; e ora da Silvio Perrella nel già ricordato L'aria
              della sera), sono due racconti compiutamente elaborati: nella
              partitura, nelle cadenze, nei richiami, nelle profondità, nelle
              levità, nelle ossessioni.
              
               Quando,
              nel 1978, Einaudi pubblicò Penny Wirton e sua madre, ne
              rimasi un po' come folgorato. È per questo che fu
              
               con
              particolare avidità e eccitazione che lessi, su «Il Ponte»
              dell'aprile 1979, un articolo - letto e riletto poi mille volte, e
              conservato accuratamente fino a
              oggi - di
              Rodolfo Macchioni Jodi intitolato
              Silvio D'Arzo narratore «per ragazzi». Un articolo che
              raccontava in modo circostanziato dell'esistenza, tra le carte di
              D'Arzo, oltre a Penny Wirton, di altre storie scritte «per
              i ragazzi»: Tobby in prigione, Il pinguino senza frac, Una
              storia casi, Gec.
              
               E quando,
              pochi anni più tardi, uscirono
              da Einaudi Tobby e il Pinguino, capii
              che aveva avuto senso aspettarli. Non erano Penny, d'accordo,
              ma erano storie importanti e belle davvero. E ancora, un bel
              mucchio d'anni più tardi, negli anni Novanta, quando Una
              storia così comparve nelle già ricordate edizioni Diabasis -
              ma un assaggio si era potuto gustarlo già nel 1990, quando sul
              numero 2 di «Idra» ne era uscito un capitolo - ancora, dicevo,
              la stessa felice sensazione di un'attesa premiata. Certo, anche
              questo racconto non era grande come Penny Wirton, ma era
              un'ulteriore conferma, e il fatto che fosse incompiuto
              - seppure leggibilissimo -
              accresceva l'amaro del fatto che D'Arzo avesse trovato a soli
              trentadue anni «la strada di casa».
              
               In
              «Una storia così»  che
              è un racconto composto probabilmente alla fine degli anni
              Quaranta, di cui ci è pervenuta soltanto la prima parte, in sette
              capitoli - si
              raccontava di un collegio alla Dickens, il «Premiato
              Collegio Minerva», condotto da Tobia Corcoran, direttore dagli
              orizzonti ampi quanto quelli del signor Thomas Gradgrind di «Tempi
              difficili» di
              
               Dickens. Come Gradgrind
              
              aveva in testa che «in questa vita non abbiamo bisogno d'altro
              che di Fatti, signore: niente altro che
              Fatti!» e
              «Louisa, non immaginare
              mai!», il Tobia Corcoran di Una storia così «aveva in
              testa soltanto un'idea (...) Ed ecco qui la sua idea: «Uno
              studente dai sei anni in avanti non può compiere azione più
              immorale, malvagia, spregevole, pericolosa, allarmante che leggere
              libri che non siano i tre libri di testo. E a sua volta un maestro
              dai vent'anni in avanti non può compiere azione più infamante,
              allarmante, pericolosa, spregevole, malvagia, immorale che far
              leggere libri che non siano i tre libri di testo».
              
               Però
              un giorno accade una cosa; anzi, due. Accade che il signor
              Corcoran si ammali, e lasci un appunto con la prescrizione delle
              dosi di analisi logica e di geometria e di calcolo da
              somministrare ai ragazzi in sua assenza, nonché una ulteriore
              nota accoratamente specifica relativa al divieto assoluto dei
              libri. Ma
              
               capita
              anche che arrivi al Premiato Collegio Teddy Tedd, Maestro
              Supplente che per avere qualche soldo con cui comprarsi una giacca
              si era messo a scrivere un grosso romanzo. E Teddy Tedd, alla
              faccia del signor Corcoran, appena arrivato al collegio, «fece
              scendere tutti quanti i ragazzi in giardino: li portò proprio
              dietro lo stagno, dove alberi e siepi eran più fitti e più folti
              che mai, e distribuì un libro a testa. - Ecco qua. Per un mese
              non farete altro che leggere questi: lo prescrive il nuovo
              programma. (...) E adesso, buon appetito».
              
               Si capisce che
              molte cose cambiarono: «I ragazzi non facevano che leggere e
              leggere, e giocare a quel che avevano letto: ed eran tutti più
              allegri che mai».
              
               E ogni sera,
              quando i ragazzi
              rendevano i libri
              al Supplente, «nella stanza di questi si ripeteva la medesima
              scena. Il primo a sbucar fuori era Tarzan (...) dopo
              
               un po' tutti gli
              altri: Alice, col suo Coniglietto, Pinocchio, i tre Porcellini, La
              Bella Addormentata nel Bosco, Mowgly, Davide Copperfield, il
              piccolo Lord Fauntleroy, Topolino, i Nani di Gulliver, John
              Silver, Jimmy Hawkins, il dottor Jeckill e Robinson Crusoe, e,
              insomma, un bel sacco di gente».
              
               Seppure
              nella sua incompiutezza, anche Una storia casi è un testo
              rappresentativo di una poetica rintracciabile in tutto D' Arzo,
              una poetica in cui il fiabesco e il magico impregnano i sentieri
              dei versanti del dire, e il mistero che permea i versanti del
              vivere perdura ben oltre i disvelamenti.
              
               L'importante
              articolo di Macchioni
              
               Jodi
              parlava anche di Gec. Ne parlava, è vero, considerando una
              sola cosa Gec e Gec
              dell'avventura -
              mentre quest'ultimo,
              come ha precisato Anna Luce Lenzi
              
               in una nota del Carteggio
              D'Arzo-Vallecchi, era uno dei titoli che D'Arzo
              provvisoriamente appose a quel che sarebbe poi diventato Penny
              Wirton e sua madre - ma, al di là dell'equivoco, Macchioni
              parlava di una storia precisa, e ne parlava raccontandone
              ampiamente la trama, senza lasciare margini di dubbio. Macchioni
              scriveva che in Gec, «ancora un po' acerbo nella struttura
              e nello stile«, D'Arzo faceva «confluire ingredienti di diversa
              estrazione>>, sovrapponendo a «una trama narrativa
              
               prevalentemente
              legata ai fasti della tradizione animalista quella in qualche modo
              collegabile alla dissacrazione delle Ghost-stories posta in
              atto, fra gli altri, da Oscar Wilde nel Fantasma di Canterville.
              Ne deriva che il suo fantasma, non appartato, per ragioni
              professionali, come quello wildiano, ma inserito
              
               nella vita
              corrente, ancorché alquanto anomala per l'equiparazione dei
              comportamenti fra uomini (in minoranza)
              
               ed animali, non ha
              alcuna velleità terrificante, ma, anzi, mansueto e provvisto
              
               di un apprezzabile
              senso di socialità,
              
               ama stare con gli
              altri, si adatta alle loro abitudini, alle loro voglie, talvolta
              stravaganti. Fantasma, dunque, casalingo  nel senso migliore -,
              è emotivo e puerilmente nostalgico. Si affeziona ad un
              
               pesce giapponese
              vinto al luna park, si
              
               diverte sul
              cavalluccio di una giostra
              
               perché gli dà
              l'illusione di rivivere i suoi giorni felici, lontani di secoli.
              Personaggio essenzialmente triste, che nell'economia del racconto
              ha un ruolo minore, dapprima fra i pipistrelli (<<i coniugi
              Pipistry>>), nel castello di Tartarucchi, infine attore in
              una compagnia teatrale che, rappresentando l'Amleto, gli affida la
              parte che gli è naturalmente congeniale. Il protagonista è Gec,
              il bambino che non vuol nascere <<con la camicia>>,
              simbolo proverbiale della fortuna. Si capisce che nel rifiuto, che
              comporta una volontà attivistica (la fortuna uno se la
              
               deve conquistare
              da solo, non possederla per diritto di nascita), risiede la morale
              del libro, dietro la quale non è difficile intravedere una
              matrice autobiografica, ove si tenga conto che l'autore, nato
              povero e senza padre, veramente <<senza camicia>>,
              aveva dovuto
              
               farsi da sé. È
              uno dei pochi personaggi appartenenti al versante umano ed è
              fatto agire in una condizione prenatale, quindi del tutto anomala,
              anche se di fatto non distinguibile da quella di un ragazzo
              qualsiasi. Del resto, nonostante la funzione primaria, la sua
              presenza si limita a pochi interventi, dal tentativo iniziale di
              nascita, subito fatto rientrare per la minaccia di dover indossare
              l'indumento ch'egli respinge con decisione, ad una serie di fughe
              provocate dal ripresentarsi della stessa minaccia. Solo alla fine,
              dopo aver trovato rifugio, in
              
               qualità di
              suggeritore, nella stessa compagnia teatrale presso la quale
              finisce il fantasma, egli può nascere, senza camicia, secondo il
              suo volere. Gli altri personaggi sono animali parlanti, ma senza
              alcun sussiego pedagogico: l'usignolo, che, divenuto amico di Gec,
              ne va alla ricerca ogni volta che fugge; la cicala e la formica,
              nel ruolo di giornalisti-investigatori, secondo un cliché
              abbastanza divulgato, anch'essi sulle tracce di Gec; il bruco
              cavolaio, che esercita la professione di sarto alla moda; lo
              Scarabeo, <<Maestro Albert Scara>>, artista «di
              eccezionale levatura, oltre che di nobili, antichissime origini«.»
              
               Anche
              Gec non era sicuramente una storia all'altezza di Penny
              Wirton, almeno per quel che se ne poteva capire leggendo
              l'articolo di Macchioni, il quale peraltro sottolineava che «se
              sul piano strutturale Gec si dipana abbastanza scioltamente
              sotto la spinta di un'immaginazione che si sintonizza su alcuni
              motivi tradizionali, sul piano stilistico
              
               esso
              si mantiene di qua dal linguaggio più tipico e personale di D'Arzo.
              Parrebbe quasi che, preoccupato di riuscire accessibile al piccolo
              lettore, rinunci agli estri, alle cadenze che meglio lo
              caratterizzano, magari a costo di apparire frettoloso o banale,
              col risultato di suscitare l'impressione di trovarci di fronte ad
              una testimonianza appartenente alla sua preistoria».
              
               Non poteva essere Penny
              Wirton, d'accordo, ma era un'altra conferma, o una serie di
              conferme. E a me, nello specifico, premeva anche l'aspetto «quantitativo»:
              scrivere «per i ragazzi»
              non era stato per
              D'Arzo un episodio isolato. Forse, addirittura, annidate chissà
              dove, esistevano altre storie, ancora.
              
               Di
              Gec, però, poi non seppi più nulla. Oltre Macchioni, ne
              parlò soltanto Anna Luce Lenzi: al Convegno darziano del 1982; in
              Silvio D'Arzo, l'isola e il mondo (contenuto in Scrittori
              nei due ducati, Comune di Montecchio Emilia, 1986), poi nel Carteggio
              D'Arzo-Vallecchi. E anche Anna Lenzi, ma da un punto di vista
              diverso, sottolineava come Gec si presentasse non risolto: «L'assunto
              principale, il non voler nascere privilegiati, è proposto
              semplicemente come un «capriccio» su cui riflettere: ma
              difficilmente un bambino, cui la grazia e la libertà di fantasia
              sembrano rivolgersi, potrebbe capire tale rifiuto e godere
              dell'immedesimazione nell'aspirante self-made-man, il «tra-qui-e-Ià»
              Gec, assai meno bambino del pinguino e del castoro dei successivi
              racconti».
              
               Si,
              certo, non poteva essere del livello di Penny Wirton, però
              mi sarebbe molto piaciuto leggerlo, l'inedito Gec. Poi, un
              giorno, successe una cosa.
              
               Mi
              trovavo in una piccola cittadina e
              
               curiosavo
              svagatamente in una libreria che allineava sugli scaffali, secondo
              criteri indecifrabili, libri di ogni tipo e d'ogni tempo: libri
              appena usciti, libri introvabili, pezzi di antiquariato, poesia,
              fumetti. saggistica, gialli, manuali del pescatore, guide
              turistiche, classici della filosofia. Uno stordimento, insomma.
              
               Mi
              capitò di posare lo sguardo sulla costa bianca di un libro.
              Sfilandolo, la copertina mi lasciò indifferente: brutta
              illustrazione, autrice sconosciuta, editore Morano. Riposi il
              libro e andai oltre. Qualche metro più avanti, però, cominciò a
              rodermi un tarlo. Non un pensiero; una «cosa» indistinta, un po'
              come se fossi rimasto impigliato e mi
              
               sentissi
              trattenere. Ripresi il libro dallo scaffale e, nonostante una
              seconda occhiata senza vita alla copertina, lo aprii. E fu un
              colpo secco.
              
               Incipit:
              «lo sono nato con la camicia e mi trovo benissimo. Se scrivo un
              libro, c'è subito chi me lo stampa; se chiedo al cameriere un
              pezzo di torta mi capita quello con la ciliegina candita; se gioco
              alle corse dei cavalli, perdo è vero, ma trovo sempre chi ha
              perduto più di me. lo dalla vita non ho avuto amarezze e se
              dovessi rinascere, sempre vorrei rinascere con la camicia. Perciò
              ho trovato stranissima la storia di Gec, il bambino che non voleva
              nascere con la camicia.»
              
               Gec.
              Non
              poteva esser altro che Gec, il cui incipit ricordavo
              perfettamente per averlo letto e riletto mille volte nei saggi di
              Macchioni Jodi e di Anna Luce Lenzi. E cosi acquisiva significato
              anche il titolo del libro: Una camicia per Gec  scelta
              redazionale o reperto delle carte di D'Arzo, aveva poca
              importanza. Quel che importava era che si trattava di Gec. E
              non solo: quel che mi impressionava era che nel 1960, cioè lo
              stesso anno della pubblicazione del vallecchiano Nostro lunedi curato
              da Macchioni Jodi e a otto anni dalla morte di D'Arzo, l'editore
              Morano ne pubblicava un libro di cui nessuno si era accorto, di
              cui nessuno sapeva nulla.
              
               Ma c'era ancora
              dell'altro, ed era la scoperta dell'ennesimo pseudonimo di Ezio
              Comparoni. Ora, nella lista, a Silvio D'Arzo, Raffaele Comparoni,
              Andrew MacKenzie, Sandro Nedi, Sandro Nadi, Ignoto del XX secolo,
              Oreste Nasi, Andrea Colli, Aldo Colli, Aldo Collin, si aggiungeva
              quest'altro: «Mariangela Cisco». Che si trattasse di pseudonimo
              femminile non era troppo strano; pur senza mai individuarne
              alcuno, almeno una volta D'Arzo stesso aveva ipotizzato di
              servirsene.
              
               Ma,
              subito, all'euforia della scoperta si affiancò un sospetto
              torbido. Il sospetto che non di pseudonimo si trattasse, bensì di
              appropriazione indebita, furto, trafugamento, plagio. In effetti,
              qualche giorno dopo, una sommaria ricerca in biblioteca mi fece
              scoprire che
              
               Mariangela
              Cisco era una persona reale: oltre
              a Una camicia
              per Gec aveva pubblicato nel 1971 un libro da Rizzoli, L'ultima
              cicogna, nella collana <<I Gemelli>>
              
               curata da Giovanni
              Arpino.
              
               Mi rivolsi a
              Maurizio Festanti, direttore della Biblioteca Municipale «A.
              Panizzi» di Reggio Emilia, presso la quale sono conservate molte
              carte darziane, per poter leggere l'inedito Gec. Festanti
              mi rispose che Gec non si trova tra le carte possedute dalla
              Biblioteca di Reggio, e potrebbe essere tra i materiali di D'Arzo
              detenuti dalla inavvicinabile vedova di Macchioni Jodi.
              
               Imboccai
              allora un'altra strada. <<Ringrazio Carlo Carena e l'editore
              Einaudi per avermi concesso la lettura del dattiloscritto inedito Gec>>,
              aveva scritto Anna Lenzi in una nota del suo saggio Silvio
              D'Arzo narratore per ragazzi. E
              io chiesi AlIa Lenzi, e a Carena, e all'Einaudi, ma nessuno aveva
              quel dattiloscritto. Poi finalmente, riuscii ad averlo, su indicazione
              della Lenzi, dalle edizioni Quodlibet di Macerata (casa editrice
              che sul n. 32/1995 di «Marka» ha pubblicato alcune pagine di Cec).
              Le differenze tra il dattiloscritto e il libro pubblicato da
              Mariangela Cisco con Morano sono minime, e potrebbero essere definite
              come interventi di semplificazione e banalizzazione. Per esempio,
              un «istrione» si trasforma in «imbroglione»; un ragazzino «linfatico»
              diventa «malaticcio»; «macabra» diventa «triste»; «le
              physique du ròle» diventa «la taglia adatta»; «una pila di 'rese'»
              diventa «una pila di giornali vecchi»; «aveva dato parola»
              diventa «aveva promesso»; delle bellezze «perverse» diventano
              «perfide»; l'usignolo «famoso cantore» diventa «famoso
              cantante»; scompare una «catarsi»; scompare «era diventato il
              loro Petronio»; scompare la considerazione che «gli avvocati in
              genere sono
              
               dei filibustieri»;
              scompaiono completamente i pensieri di monsieur Pipistry mentre
              guarda riviste francesi illustrate (e questa scomparsa non fa
              capire cosa significhi il suo abbandonarsi segretamente alla
              nostalgia, schivando la petulante moglie): «Balletti, canzoni,
              PIace Pigalle, il 14 luglio, Juliette Greco, eh! anche la Francia
              aveva i suoi Iati buoni» -
              pensieri troppo
              rivoluzionari? troppo solleticanti?
              troppo «maschili»?
              
               Inoltre,
              qualche passo è rimaneggiato, e là dove il dattiloscritto dice
              che le api erano noiose e «troppo di sinistra» il libro dice che
              «si occupavano solo di questioni sindacali».
              
               Ma
              questi sono soltanto alcuni esempi; io mi fermo qui. Dovranno
              essere studiosi seriamente attrezzati di competenze specifiche a
              puntigliosamente ponderare il tutto, e cercare di appurare
              qualche verità. È certo
              infatti che esse ben difficilmente possono essere individuabili
              dagli innamorati; altrettanto certo è però che il chiarimento
              debba avvenire, se non altro per sciogliere il dubbio che
              Mariangela Cisco sia stata uno squallido sciacallo capace
              solamente di ghermire dentro le macerie della sguarnita casa
              devastata.
              
               Trovare
              Mariangela Cisco non era
              
               facile:
              da Morano mi dissero che era trascorso troppo tempo (1960!); da
              Rizzoli mi diedero un indirizzo romano, aggiungendo però che
              probabilmente si trattava di un recapito inutilizzabile perché
              nel 1976 una lettera era stata rispedita in casa editrice essendo
              il destinatario sconosciuto a quell'indirizzo. Arpino era morto.
              Morano era morto. Macchioni lodi era morto. Sottosopra la
              Vallecchi. Inavvicinabile la vedova di Macchioni.
              
               Poi,
              purtroppo, venni a sapere, da suo fratello, che Mariangela Cisco
              non c'era più.
              
               Se
              poi il dubbio riguardante Mariangela Cisco si dovesse sciogliere a
              suo favore, altrettanto importante sarebbe chiarire se
              l'attribuzione di Gec a D'Arzo sia dovuta a un abbaglio di
              Macchioni Jodi o a che altro.
              
               Non si può
              escludere forse nemmeno qualche confusione vallecchiana: nel
              luglio 1977 una lettera della Direzione Editoriale della Nuova
              Vallecchi Editore a Macchioni Jodi diceva: «Cogliamo l'occasione
              per restituirle insieme ai tre dattiloscritti di D'Arzo che ci
              richiede, anche altre carte ancora giacenti nei nostri archivi». E
              seguiva un elenco
              di quattro titoli in cui, oltre a Penny
              Wirton, il
              Pinguino e Tobby in prigione, compariva
              anche, e al primo posto, il titolo
              Pick. Molto probabilmente quest'ultimo è solo un refuso
              per Gec, ma in
              ogni caso è
              un segnale che allarma, per diverse intuibili ragioni.
              
               Inoltre sarà
              opportuno tenere presente
              che Mariangela Cisco
              era in qualche
              modo in contatto con
              Vallecchi (fra
              l'altro, editore in quegli anni di
              almeno un libro del
              fratello) se in una lettera
              
               del 1963 poteva
              scrivere che, per
              aiutarla nella
              «gran fatica di trovare un editore», Vallecchi le
              aveva consigliato di partecipare al Premio
              Laura Orvieto.
              
               Le
              carte di D'Arzo venivano restituite a Macchioni sulla base di un
              dattiloscritto,
              datato 31 gennaio
              1962 e firmato da
              Rosalinda Comparoni,
              nel quale la madre
              di D'Arzo disponeva che «i manoscritti,
              le carte e le pubblicazioni di
              mio figlio Ezio (Io scrittore
              noto con lo
              pseudonimo Silvio D'Arzo) siano consegnati al dott. Rodolfo
              Macchioni Jodi, attuale
              vicedirettore della
              Biblioteca Municipale di Reggio Emilia».
              
               Bisogna dire che
              Macchioni non si è mai
              scatenato a cercare
              di pubblicare qualunque
              cosa; anzi, si potrebbe quasi affermare
              che sia avvenuto il contrario
              
               - in
              ogni caso si risentì quando Paolo Lagazzi
              curò per Garzanti la pubblicazione
              di Essi pensano
              ad altro, e
              cercò di
              ostacolare il progetto di ulteriori pubblicazioni per lo stesso
              editore. E naturalmente i processi alle intenzioni non si possono fare,
              cosi non è possibile concludere davvero qualcosa a
              proposito delle ragioni delle sue cautele. Non è possibile, per
              esempio, stabilire se esse fossero dettate dal convincimento da
              lui espresso nella presentazione
              dell'inedito Un
              ragazzo d'altri tempi, sul
              n. I3/1983 di «Contributi», là dove diceva di non essere mai
              stato entusiasta «della curiosità, certo innocente e in qualche
              caso meritoria, che spinge a frugare fra gli
              "scartafacci" di uno scrittore per portarne alla luce
              qualche abbozzo, opere inconcluse o anche complete che,
              salvo casi eccezionali (in primo luogo quello della morte che ha
              troncato il lavoro in fieri), si collocano nell'ambito dei suoi
              rifiuti». Altrettanto impossibile è stabilire se quelle cautele
              fossero invece ispirate, almeno in parte, anche dal voler
              mantenere una «esclusiva» delle carte darziane che sentiva forse
              precaria, e come intaccata dall' avvertire quasi «concorrenziale»
              l'interesse per D'Arzo di altri studiosi, essendo per di più di
              labile valore legale il documento con cui la madre di D'Arzo gli
              aveva lasciato le carte del figlio (una dichiarazione battuta a
              macchina, non di pugno della firmataria, senza alcuna
              registrazione di autentica; il venir meno dell'incarico presso la
              Biblioteca di Reggio).
              
               È
              evidente che si rende necessario che la questione sia affrontata
              da filologi seri. Quel che a me sembra di poter dire è che
              leggendo Gec ci si trova ben lontani dal D'Arzo «stevensoniano»
              di Penny
              Wirton e sua
              madre, ma questo,
              evidentemente, non cambia nulla. l Iimiti
              di questo ingenuo Gec, d'altra parte, erano stati
              individuati sia da Macchioni sia da Anna Lenzi. E se ne potrebbero
              aggiungere altri, ma non è questo il punto. Il punto è invece un
              altro. Si tratta della necessità di non dimenticare Silvio D'Arzo,
              di studiarlo, di evitare di rinchiuderlo nella pur dorata gabbia
              della irripetibilità di Casa d'altri, di evitare che
              l'assenza di eredi ne faccia sorgere di arbitrari e indebiti o assecondi
              svariate trascuratezze.
              
              
              
               Medesimo
              discorso vale a proposito del D'Arzo «per ragazzi», soprattutto
              pensando che anche «Penny Wirton» è a suo modo «irripetibile».
              
              «Penny Wirton e sua madre» e la storia di un ragazzo che vive solo
              con la madre nella contea di Pictown, luogo immaginario quanto lo
              è il Settecento in cui è collocata la vicenda. Vicenda da leggersi
              senza intermediari, e
              che quindi non racconterò. Dirò solo
              
               che, oltre a Penny
              e sua madre, ci sono i suoi spocchiosi compagni di scuola; il
              Supplente, «Baccelliere d'Arte e maestro di scuola»; il Cieco,
              un mendicante cantastorie imbroglione che diffonde immani panzane
              e scomode verità; l'oste della locanda di Shorly; il Cancelliere
              di Villa, il Primo Intendente, il Referendario, il Procuratore
              Signifero, il Maestro Aulico, i briganti della Compagnia del
              Coltello; e c'è una commedia
              
               che salta, ed un
              rapimento, e una fuga da casa, e bambini che non nascono più, ed
              un Cancelliere che sbianca di
              
               fronte ad un certo
              biglietto e allora ritira l'accusa, cosa che fanno anche il Primo
              Intendente di Villa e poi anche il Vice e il Consigliere di Prima
              e Ultima
              
               Istanza. E c'è la
              Collina, e lassù, dietro
              
               un cancello, ogni
              notte i morti parlano
              
               a lungo -
              quelli che
              qualcuno ricorda, perché
              chi sfuma dalla memoria dei vivi svanisce nel nulla. E sulla
              Collina, là,
              
               dietro al
              cancello, c'è il padre di Penny, e sua moglie ogni notte si reca
              a parlargli, e discutono a lungo perché lei ha detto al figlio:
              "Nessun uomo (di questo puoi stare tranquillo) valeva l'ombra
              del suono del tacco del tuo povero padre. Con un pezzo di
              sciabola in mano e
              
               un cavallo sotto
              di sé, sapeva fare cose
              
               da libro, da
              cantarsi alle fiere per anni. Come del resto è accaduto. E prima
              di marciare per la brughiera di Fellow, dove doveva cadere, per
              tradimento o disgrazia o tutti e due messi insieme (perché mai
              una causa soltanto riuscì ad avere ragione di lui), mi disse
              questo e nient'altro: "lo voglio che mio figlio sappia un
              giorno combinar tante cose da farmi vergognare delle poche che ho
              fatto..." Capisci lo stile, ragazzo? Beh, questo era tuo
              padre». E lui invece vorrebbe che Penny sapesse la verità, ché
              il suo idolatrato padre non era altro che un povero sellaio. Verità
              che Penny, per
              
               caso, un giorno
              scoprirà, e ne deriveranno conseguenze che qui non dirò. Non le
              dirò soprattutto perché è meglio gustarlo nella limpida lingua
              del suo autore, questo bellissimo libro «per ragazzi». E a tutti
              coloro che al solo pensiero di questa «categoria» storcano il
              naso, vorrei ricordare quel che scrisse in proposito Attilio
              Bertolucci su «la Repubblica» nel febbraio 1978: «I grandi, cui
              oggi caldamente raccomando il libro, spero non abbiano il palato
              cosi guasto da trovare Penny Wirton un tantino, come dire,
              semplice. Mi credano, è molto più complesso e labirintico di
              quel che non sembri, anche se risolto con solare chiarezza, giusta
              la lezione di quel Robert Louis Stevenson da Silvio D'Arzo tanto
              amato».
              
               Sì,
              la sintonia di D'Arzo
              
              con Stevenson si è espressa nella sua cifra più alta proprio in
              "Penny Wirton e sua madre". Un libro, questo, pubblicato
              da Einaudi soltanto nel 1978 ma databile al 1948, sulla cui
              prolungata e complessa stesura, e su quel che per D'Arzo
              rappresentò, si può leggere molto nel carteggio con Vallecchi.
              Un libro che sicuramente costituisce un documento importante anche
              nella dolorosa vicenda biografica di D'Arzo, ma che testimonia
              esemplarmente di quale considerazione effettiva egli avesse dello
              scrivere "per ragazzi". 
              
               Penny
              Wirton e
              sua madre è a mio parere il più bel libro «per ragazzi»
              scritto in lingua italiana dopo Pinocchio. Il più bello e il più
              intenso, e il più
              
               duraturo. Un
              libro carico di contenuti
              
               forti ma
              assolutamente privo di pesantezze e moralismi; un libro che in
              piena levità si distende sulle vicende interiori e sulle
              dinamiche sociali senza mai
              
               cadere nella
              precettistica e nella noia. Un libro in cui a Silvio D'Arzo è
              riuscito quel «miracolo» che lui stesso aveva sottolineato
              parlando dell'Isola del tesoro: «Perché Stevenson sapeva una
              cosa importante: che ai nostri tempi, ai tempi «dei più savii
              giovani d'oggi», una sola condizione è rimasta per cui si possa
              accettare anche il più poetico dei c'era una volta: che sia
              documentato anche più di una storia o una cronaca. (...) Ma ne
              sentiva una anche più importante: che la più ben congegnata
              invenzione, il più logico e conseguente sviluppo degli
              avvenimenti, lo stesso senso della proporzione, cosi mirabile in
              lui, potevano finir col creare un che di lontano dall'avventura e
              dall'arte come lo è dalla vita anche la più saggia delle sagge
              sentenze di Polonio. Che per trovare logica un'avventura occorre
              un alito di illogicità. Che, insomma, per «credere» veramente a
              una favola occorre in fondo che sia un poco incredibile».
              
               Eppure,
              nonostante tutto, Penny
              
               Wirton
              è
              sostanzialmente misconosciuto. Bertolucci, in quello stesso
              articolo, lamentava che l'editore Einaudi avesse scelto di «ghettizzare
              il mirabile racconto nella pur ottima collana «Struzzi Ragazzi»».
              Aveva semplicemente ragione. Perché quella scelta, sicuramente
              ispirata da intenzioni nobili, non poteva che portare a
              conseguenze doppiamente disastrose: da una parte allontanare il
              lettore adulto, diffusamente convinto di non doversi abbassare ai
              livelli della cosiddetta letteratura per l'infanzia; dall'altra
              non arrivare mai ai ragazzi. E invece avrebbe dovuto avvenire
              esattamente il contrario. Anzi, a me sembra che questo sia uno dei
              casi in cui è opportuno, o necessario, che un editore non si
              dedichi solo ai propri conticini e sappia osare
              
               la doppia
              edizione, una «per ragazzi» e una «non-per-ragazzi». Perché
              è verissimo quel che sosteneva Bertolucci,
              
               che «Penny
              Wirton andrà collocato fra L'isola del tesoro e Huck
              Finn: che stanno sia nella biblioteca dei ragazzi che in
              quella dei grandi. Libri sfuggenti e alati, possono spostarsi
              dall'una all'altra perché hanno la natura di Ariele»
             Ma
            altrettanto vero è che siamo pervasi di cultura del pregiudizio e
            del preconfezionato o precotto, e per far si che una propria lettura
            passi a figli o allievi è necessaria una piuttosto rara «buona
            volontà»: quella che si fonda e si sviluppa su una complicità,
            tra adulti e ragazzi, che,
            
             consapevole
            della propria sostanza di gesto d'amore, si manifesta nel passarsi a
            vicenda, con discrezione e serena determinazione, l'acqua della vita
            nelle sue variegate versioni - e tra queste una parte importante
            hanno le parole e le storie.
            
             Ai figli, agli
            allievi, agli amici d'età verde o verdissima non mi pare che basti
            fornire qualcosa di che sopravvivere: sarà necessario dar loro
            anche il
            
             mare e il vento e
            le nuvole e le montagne, cioè anche libri, che so?, come Harun e
            il Mar delle Storie di Rushdie, Il diavolo nella bottiglia
            di Stevenson, Il paese dei ciechi di Wells, Ci sono
            bambini a zigzag di David Grossman, Il prigioniero nel
            Caucaso di Tolstoj, Lazarillo de Tormes. Libri come Penny
            Wirton e sua madre, per esempio. Ma, beninteso, ben alla larga
            dalle paludi dell'editoria scolastica.
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