Per il giorno della memoria  

  da ècole 2 2001

                                                                                                           

         «Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / Stando per casa andando per via, / Coricandovi alzandovi; / Ripetetele ai vostri figli», scriveva Primo Levi, e poneva la necessità di dire, di raccontare, di far sapere per evitare che l’orrore si potesse ripetere. Poneva la necessità che il mondo conoscesse se stesso. «Se morremo qui in silenzio come vogliono i nostri nemici, se non ritorneremo, il mondo non saprà

 di che cosa l’uomo è stato capace, di che cosa è tuttora capace: il mondo non conoscerà se stesso, sarà più esposto di quanto non sia ad un ripetersi...». Oggi, ancora, la necessità è che il mondo conosca se stesso. E la funzione fondamentale della memoria dello sterminio del popolo ebraico è che il mondo conosca se stesso.

         È stato istituito il Giorno della memoria, il 27 gennaio, data dell’apertura dei cancelli di Auschwitz — e le scuole sono state esortate a tenerne conto. Spesso si paventa la riduzione di una data a rituale, a scadenza dovuta, nei casi migliori a mero simbolo. Io qui auspico e rivendico invece l’elevazione di questa data a rito, a dovere morale, a struttura simbolica. Almeno quel giorno si deve aprire quella porta su quell’abisso; si deve sbattere la faccia e l’anima su quella voragine; si deve rimanere impigliati tra i bracci della menorah e tra i raggi della ruota di legno degli zingari; si deve aprire il Libro della memoria; si deve fare in modo che il mondo conosca se stesso. Si deve alzare un monumento, posandolo sulle fondamenta della necessità che il mondo conosca se stesso.

       

 

 Ne La tregua Primo Levi parla di Hurbinek, «un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare (...) ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva. (...) Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole». Parole che non restituiscono nulla a Hurbinek, ma fondamentali perché ci restituiscono Hurbinek, lo restituiscono al mondo perché esso possa conoscere se stesso. Restituiscono il sommerso Hurbinek, e restituiscono il “salvato” Levi, cui, come al vecchio marinaio di Coleridge, «da quel momento, a un’ora incerta, / quell’agonia ritorna; / e fino a che non ho detta la mia storia / di morti, dentro mi brucia il cuore».

       

 La Shoah non è problema dei sei milioni di ebrei assassinati, dei cinquecentomila zingari assassinati, dei nazisti assassini, di coloro che finsero di non sapere e tacquero — contadini polacchi o papi di Roma, non importa. La Shoah è problema di tutti, di tutti noi, anche di chi è nato dopo, anche di chi nasce oggi; questo la scuola non lo può ignorare o sottovalutare, e non già in quanto luogo deputato alla trasmissione del sapere, bensì in quanto luogo di coesistenza di umani.

         È poco, assurdamente poco, un giorno. Diceva Günther Anders: «Sappiamo che la nostra forza non basta per immaginare davvero questi milioni e per udire l’immenso compianto che risulterebbe dalla somma di altrettanti milioni di grida di morti». E suggeriva allora, per ricordarli in qualche modo, che ognuno di noi tentasse di celebrarne uno, uno solo: un bambino distrutto dalle radiazioni a Hiroshima, una donna bruciata a Dresda, un ebreo ucciso a Auschwitz, un marinaio americano annegato, un algerino torturato, un bambino che domani non nascerà... «Ognuno tenti di ricordarne uno solo, uno che è stato o uno che sarà. Può darsi che la somma dei nostri pensieri e del nostro lutto si avvicinerà a quello che noi dovremmo veramente piangere. E forse da questi pensieri potremmo estrarre la forza per deciderci: ottenere che coloro che oggi piangiamo in anticipo tuttavia sopravvivano, che il terribile non accada. In questo pensiero e in questa decisione, nata dal lutto, vi prego di alzarvi in piedi».