| Storie proprio così da ècole 1 2001 | 
                                                                                                           

| Come
          tutti ben sanno, ciascuno ha i proprii riti, più o meno confessabili.
          Anch’io, naturalmente, e d’uno, che non solo ritengo confessabile
          ma addirittura mi rende in qualche modo orgoglioso, voglio dire qui.
          Da trent’anni, al cambio dell’anno, rileggo la New
          Year Letter (Lettera per il
          nuovo anno) di W.H.Auden. Sì, trent’anni. Ne avevo quindici, proprio appena compiuti, quando la lessi per la prima volta. Qualche tempo prima, nell’estate, in un libro di mia sorella maggiore avevo letto una 
  poesia di Auden che mi aveva molto colpito e mi aveva messo dentro il
          tarlo di leggerne altre, ancora e ancora. Potei farlo solo
          nell’autunno inoltrato, un pomeriggio di fine novembre, quando
          riuscii, dopo molti tentativi andati a vuoto, a vincere il timore che
          alla Biblioteca Palatina di Parma non mi facessero entrare perché non
          avevo ancora sedici anni. Quel pomeriggio percorsi ancora una volta lo
          scalone, poi entrai. Sbirciando i gesti altrui mi riuscì di capire
          dove fossero i cataloghi, cosa si dovesse compilare. Intanto facevo
          mentalmente danze propiziatorie, e soprattutto facevo prove mentali
          perché la voce uscisse bassa e piena, senza stridulerie da ragazzino.
          Non ebbi bisogno di usarla, la voce; l’addetto alla distribuzione
          prese la mia scheda senza chiedermi nulla e dopo un po’ mi consegnò
          due libroni: Opere poetiche
          di W.H.Auden. Frugavo avidamente in entrambi, spesso senza capirci
          molto, e copiando disordinatamente su un quaderno intere poesie e
          singoli versi. Quando incappai nella Lettera
          per il nuovo anno capii che non sarei riuscito a leggerla tutta.
          Si stava avvicinando l’ora in cui, qualora fosse riuscita a vincere
          la solita trattativa con sua madre, Anna mi avrebbe aspettato alla
          fermata dell’autobus davanti al monumento al Partigiano. Volevo
          continuare a leggere, e mi andavo dicendo che Anna non ce l’avrebbe
          fatta, ma avevo troppa voglia di vederla, troppe cose da dirle, troppe
          emozioni da mettere in comune, e quei versi da leggerle. Prima di
          volare da lei, trascrissi anche i primi versi della Lettera: «Sotto il peso familiare / dell’inverno, della coscienza
          e dello Stato, / in formazioni sparse di allegria, / linguaggio,
          amore, solitudine e paura, / verso le abitudini del prossimo anno, /
          la folla scorre lungo le strade, / cantando o sospirando nel suo
          andare». Andammo subito al Parco Ducale, e la nebbia era quella di
          sempre, e la luce sempre quella fioca, e i baci e le carezze erano
          quelli di sempre, e il tempo sempre il solito maledetto avaro, ma le
          mie parole erano i versi di Auden, che le leggevo tenendola stretta,
          il quaderno dietro i suoi capelli, dentro uno stordimento, in una
          miscela di beatitudine e ansia.         
          Chissà cosa capii, quella volta, di
          Auden? (Non è propriamente una lettura da quindicenni.) E chissà
          cosa ne capisco oggi? L’unica cosa certa è che da allora, quando
          arriva l’inverno, rileggo ritualmente la Lettera.
          Sono passati trent’anni, e potrei dire che ogni volta sono ben
          diverse le emozioni, le reazioni, le suggestioni. Ben diverse le
          svolte e le aperture. Ma un verso, quello in cui si parla del «vecchio
          orribile Kipling», mi pare mi colpisca sempre nello stesso modo: si
          riapre una ferita e si rinnova un amore. So bene quali orribili cose abbia scritto e fatto e sostenuto il «vecchio orribile Kipling», ma altrettanto bene so quanto io l’abbia amato e lo ami, con quale incondizionata passione ne pratichi e ne consigli la lettura. Certo, l’amore è per il 
  Kipling di cui parlava Silvio D’Arzo in un
          saggio scritto tra il 1946 e il 1950 e leggibile ora in Contea
          inglese (Sellerio 1987), il Kipling «senza trombe», «senza
          turbante e elmo bianco» delle Storie
          proprio così, dei Libri
          della Giungla, di Puck delle
          colline (e anche di Kim).
          E anch’io, come D’Arzo, mi faccio aiutare dal pensiero che «Gramsci,
          la più alta vittima della giungla italiana di quei tempi, dal fondo
          della sua prigione, consigliava i libri di Kipling a suo figlio. Io,
          m’accontento».         
          Adesso c’è una ragione in più
          (anzi, ce ne sono due) per leggere o rileggere «il vecchio orribile
          Kipling». Sono infatti uscite recentemente due importanti nuove
          edizioni, entrambe per la traduzione di Ottavio Fatica: Kim
          presso Adelphi e I libri della
          Giungla e altri racconti di animali nei Tascabili Einaudi.
          Quest’ultimo è la versione economica del prezioso “Millennio”
          uscito nel 1998 e, oltre ai due bellissimi Libri
          della Giungla e alcune storie di cani (ma c’è anche Cam
          e il porcospino e La storia
          del Tabù), ripropone in una nuova felice traduzione le mirabili
          narrazioni eziologiche delle Storie
          proprio così, che Kipling scrisse per la prediletta Effie, la
          figlia Josephine. Bisogna davvero leggerle ad alta voce, come peraltro
          sosteneva lo stesso Kipling, e ci si troverà ad operare dentro la
          moltiplicazione di un gesto d’amore. |