Storie e fiabe degli zingari  

  da Linea d'Ombra annata 1994

                                                                                                           

"L'Enza è scesa bionda e sporca: / ha trecce di paglia e miti occhi, / canta camminando, / il suo piede è grande con vene delicate." Così diceva Attilio Bertolucci in L' Enza a Montechiarugolo, una poesia molto bella, del 1934, in cui raccontava questo torrente che, tra roselline bianche e fiori di gaggìa, rotola tra la provincia di Parma e quella di Reggio Emilia. "L'Enza correva azzurra / lungo il

 tiepido giorno; / già nell' avanzato pomeriggio / bambini bruni vi s'immergevano / con deboli gridi, / e spruzzandosi e ridendo e tremando / godevano di quell'acqua di fiordalisi." Ma quella volta l 'Enza era scesa bionda e sporca, dopo che dietro una apparentemente innocua e solitaria nuvola bianca "uno scuro esercito avanzò / e da giorni e giorni tiene il cielo, vincitore. / Tremanti e fradice le rose si sfogliano, / il frumento si piega, il fieno marcisce, / l'Enza è una fanciulla bionda e povera".

Ancora una volta l'Enza è scesa, bionda e sporca; però non era il maggio di sessant' anni fa, era invece il confine tra l'agosto e il settembre di questo nostro orrendo presente. E sarà stata allora mora e sporca e furente, furibonda a sfogliare e spazzare e piegare. E annichilente, anche, e forse annichilentesi, con le sue vene di fanciulla povera fattesi fragore - anche, forse, a cercar di coprire persino un rimorso che poi comunque a maggio affiorerà pur anche dalla profonda dolcezza di un caldo e fiorito silenzio rinnovato.

E sarà stata ben scura, e furibonda davvero se, nell'immelmare tutto intorno, non ha esitato a portarsi via, insieme a legni e sassi, a fogliame e detriti, anche tre persone, strappandole da una terra che forse avevano potuto credere amica, se non altro perché risonante di un fragore che non era di bombe fucili granate, ma soltanto fragore di cicale, di uccelli e di cicale.

Safet Memetovsk, Sneza Memetovska e Michela Cemaylov erano accampati lì, proprio vicino alI'Enza a Montechiarugolo. Erano lì, probabilmente perché oltre ad essere di origine bosniaca erano zingari; e, come si racconta in una fiaba molto bella (La zingara e la caverna, contenuta in Storie e fiabe degli zingari, a cura di Diane Tong, Guanda), "agli zingari era proibito accamparsi per la notte vicino alla città, così avevano dovuto piantare le tende a una certa distanza". Anche in questa fiaba "tutto d'un tratto prese a piovere davvero a dirotto", ma la protagonista della storia avrà la fortuna di trovare una caverna in cui abitano i dodici mesi e di ricavarne un dono magico a ricompensa della sua grata serenità nei confronti di ognuno di loro. Safet, Sneza e Michela, invece, incontreranno solo la furia della fanciulla povera impazzita.

 Michela aveva quattro anni. Quante fiabe avrà sentito, nella sua vita? E quelle che avrà potuto sentire, che colonna sonora avranno avuto? Il battito scomposto del cuore nella fuga o gli spari di Sarajevo? Il silenzio dell'indifferenza universale o l'agghiacciante strofinìo delle penne con cui ancora recentemente trentamila fiorentini hanno dichiarato di esigere, senza sentirsi tremare, la cacciata degli  

 zingari dalla loro opulenta città e dai loro intoccabili affari? Si può forse soltanto sperare che, come scriveva Bertolucci, il "caldo e fiorito silenzio" dell'Enza a Montechiarugolo sia stato ripetutamente "rotto solo da canzonette d'usignoli, / dall'alacre rumore del picchio / e dal lamento solitario e bizzarro / del multicolore uccello del vento", oppure che le cicale siano state davvero innumerevoli, scatenate, assordanti.

Ora Michela, non più ritrovata, è nel paradiso degli zingari. In esso, come dice una fiaba degli zingari di Bosnia contenuta nel libro di Diane Tong, "i campi sono vasti e larghi, i cavalli galoppano, ci sono salici, c'è ombra e tutte quelle buone cose di cui abbiamo bisogno". Noi invece siamo qui, e, come diceva Primo Levi, viviamo sicuri nelle nostre tiepide case e troviamo tornando a sera cibo caldo e visi amici. Ma se non vogliamo che i nostri nati torcano il viso da noi, dobbiamo davvero meditare che questo è stato, e mantenerne viva la memoria. Lo dobbiamo tanto più per gli zingari, perché, come diceva Giinther Grass in un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 22 febbraio 1993, "non esiste Stato cui possano appellarsi perché sostenga la loro richiesta di risarcimento per Auschwitz. Non hanno alleati. Non sono rappresentati da nessuno. I Rom e i Sinti sono i più miserabili tra i miserabili".

Non solo: secondo i risultati di una ricerca dello scorso anno, per i bambini italiani gli zingari sono la raffigurazione tangibile dell'Uomo Nero, quasi nessuno inviterebbe a casa propria un bambino zingaro né lo vorrebbe come compagno di banco. Che vergogna. La vergogna. Ecco, forse, per fare sì che questo agghiacciante paese non lo diventi sempre più, di fronte alle notizie che riguardano i più miserabili tra i miserabili, così come di fronte ad ogni conferma delle deformazioni teratologiche operate sull'immaginario infantile, sarebbe necessario provare quella vergogna di cui parlava Primo Levi ne I sommersi e i salvati e ne La tregua: "La vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa".

Il giusto, dice Primo Levi. Certo, come fare a definirsi tali senza incappare in urtanti presunzioni? Non so. Ma so bene che questo non può in ogni caso costituire un alibi. E altrettanto bene so che chiunque sia in qualche modo preposto alla trasmissione del sapere - se non anche alla "educazione" - di almeno un dovere si dovrebbe dotare, senza eccezione alcuna: il dovere di contribuire a costruire conoscenza.

La coltre di ignoranza in cui tutti noi gagè siamo avvolti deve essere strappata via, perché è un doloroso atto d' accusa riguardante l'essenza profonda della nostra stessa funzione, nonché un documento di certificazione della nostra dignità. E poi bisogna risarcirli, i bambini. Perché è intollerabile che li sia portati a temere i figli del vento" e non, per esempio, l' "omino di burro" E si potrebbe o dovrebbe cominciare dalle fiabe, magari raccontandogliele riuniti intorno a un bel fuoco connotato da vera vigorìa. In italiano, oltre al già ricordato libro di Diane Tong, sono facilmente reperibili almeno Il rametto dell'Albero del Sole, di Jerzy Ficowski (e/o), Il vampiro riconoscente. Fiabe, leggende e miti della tradizione zingara, di Francesca Lazzarato e Vinicio Ongini, I quattro fratelli, Fiaba zigana, a cura di Marle Vorfskova (Sonda), La nascita dell'unicorno e altre leggende dei nomadi scozzesi, di Duncan e Linda Willlamson; (Mondadori). Inoltre è sperabile che venga riproposto un libro pubblica una decina d'anni fa dalle Edizioni Gruppo Abele e ora esaurito, In viaggio con Raf, di Carla Osella. Un libro che voglio ricordare qui perché è una delle poche  narrazioni sugli zingari rivolte ai bambini, e si connota come uno strumento importante, anche se richiede considerazioni critiche diverse e non racconta fiabe.

Si potrebbe o dovrebbe cominciare dalle fiabe anche perché potrebbero essere utili come antidoto alle menzogne, alle scorciatoie semplificatorie, agli sproloqui. Tra questi ultimi abbondano quelli provenienti da quel rigoglioso museo Teratologico che è il Ministero della pubblica istruzione, e tra questi spicca, per non far che un esempio, l' insistita sollecitazione a "avviarsi verso l'Europa". Ebbene, pur ritenendolo uno sproloquio, propongo che lo si assuma davero, nelle scuole di ogni ordine e grado, e lo si persegua secondo quella che, almeno fino ad ora, mi sembra l'unica indicazione davvero concreta e riconoscibile. È contenuta nell'articolo di Gunter Grass già citato, e dice: "Lasciate che mezzo milione o più di Rom e di Sinti vivano fra noi. Ne abbiamo bisogno. Potrebbero aiutarci a scompigliare un po' il nostro ordine così rigido. Potrebbero insegnarci quanto prive di significato sono le frontiere: incuranti dei confini, i Rom e i Sinti sono di casa in tutta Europa. Sono ciò che noi proclamiamo di voler essere: cittadini d'Europa. Forse ci servono proprio coloro che temiamo tanto".