Teatro delle meraviglie  

da Linea d'Ombra annata 1996

                                                                                                           

Il Pinocchio di Luzzati

Domande che stuzzicano all'assassinio. Ma si finisce poi per convivere anche con il rischio. Vale infatti sicuramente la pena di dannarsi, se la causa della dannazione proviene dal non avere saputo decidere per troppo amore; dall'avere preferito l'ammettersi ingordi oltre ogni misura, al piegarsi a costi e rinunce impossibili; dal non essere riusciti a trovare la vigliaccheria necessaria per far

 credere d'essere uomini tutti d'un pezzo che sanno tranciare e tranciarsi.

E così, adesso che vedo scolpirsi su labbra e labbra e labbra una domanda analoga, sento che mi risulta esser arduo di molto il tenere la mano lontano dal coltello. Tra l'altro si tratta delle stesse labbra, e sormontate dagli stessi occhietti da tribunale, che a suo tempo m'avevano intimato di scegliere tra il Pinocchio di Roberto lnnocenti (Edizioni C'era una volta) e quello di Lorenzo Mattotti (MilanoLibri). Allora, per mia e loro fortuna, l'avevano scampata a motivo esclusivo del fatto che io ero lì, in adorante estasi per quei due universi così inconciliabilmente complementari, e non m'era nemmeno riuscito di dire un inappellabile "Ma mi faccia il piacere!".

E adesso ricominciano. Ricominciano perché è uscito, per le Edizioni Nuages, un altro Pinocchio: quello illustrato dal grande Emanuele Luzzati. Ma io, incurante del fatto di avere già detto le stesse parole sia per il Pinocchio di Innocenti sia per quello di Mattotti, lascerò perdere tutto e dirò semplicemente l'unica frase che mi suona sensata: questo Pinocchio è una meraviglia. Lo è per diverse ragioni. La prima è il piacere che se ne ricava guardando; la danza di colori e di ombre in cui ci si trova anche, aprendo un po' a caso tra le singole tavole. Le quali tavole sono, ognuna, compiutamente scena e racconto. E questa è un' altra delle ragioni che fanno di questo libro una meraviglia: una meraviglia pienamente luzzatiana e al tempo stesso altrettanto pienamente collodiana e pinocchiesca.

Si potrebbe pensare che l'insistita connotazione scenica possa derivare dal fatto che Luzzati è in ben più che larga misura uomo di teatro. A me però piace pensare che essa derivi invece soprattutto, se non esclusivamente, da una lettura attenta, profonda e, per così dire, "umile" del libro di Collodi. "Umile" nel senso che ricalca e ribadisce, e anche rinforza, con la felicità del proprio segno pittorico - quella che a mio parere è la cifra principale e peculiare di Pinocchio: il teatro. E come il testo di Collodi risuona della propria essenza prima, l'oralità e appunto il teatro, le illustrazioni di Luzzati fanno risuonare il narrare del legno dell'onnipresente palcoscenico. In questo senso le splendide tavole di Luzzati sono come ombre che riproducano non già la sagoma di un corpo, bensì la sua stessa anima. E come in teatro, dove non c'è finzione che riesca a eludere la materialità della scena, così in questa lettura di Pinocchio non c'è allegoria o metafora o simbolo o gesto che possa prescindere dal legno di quelle assi e dal loro inscindibile legame con il legno del burattino.

Questa meraviglia di libro ha però un difetto: pur contenendo due storie - quella per parole collodiane e quella per immagini luzzatiane - riporta un solo indice, quello con i titoli dei capitoli della storia di Collodi. Porrò rimedio io, allora, scrivendo qui il sommario dei dipinti.

Tavola prima. Nella quale si racconta come Geppetto desse vita a Pinocchio, e come a questa nascita assistesse, abbarbicato sul fondale-casa, un nero figuro becconasuto che si direbbe fatto della medesima trista pasta di quelle fate incattivite dal non essere state invitate ai festeggiamenti e nascostamente lì convenute col solo intento di covare turpissimi propositi.

Tavola seconda. La quale è un grande omaggio a Mangiafoco. Dove si racconta, in sequenza di dodici mirabilmente caleidoscopiche scene, la storia da cantastorie di quel che ebbe a succedere nel Gran Teatro dei Burattini.

Tavola terza. Nella quale si racconta come non si riesca a non rendere un ulteriore omaggio a Mangiafoco, nonché agli abitanti del suo Gran Teatro. Dove altresì il losco nero becco­nasuto ci riprova, ma parrebbe stremato.

Tavola quarta. Nella quale si racconta dell'Osteria del Gambero Rosso e di come, colà, i due che si davano per Gatto e per Volpe ben giustamente avessero facce luridamente polimorfe.

Tavola quinta. Nella quale si racconta come Pinocchio finisse per essere impiccato a un ramo della Quercia grande.

Tavola sesta. Nella quale si racconta del Campo dei Miracoli, e di come il grande Luzzati, solare, solarissimo, sapesse dimostrare, confermando, d'essere un gran mago anche per il notturno, per gli incubi, l'angoscia. Neri becconasuti senza fine, bagliori di tregenda.

Tavola settima. Nella quale si racconta di come il potere abbia dita puntate, puntate in ogni dove polipesco. Luridamente nero, inappellabile. Diceva Mandel'stam che "il potere è ripugnante come le mani di un barbiere": qui carabiniere e giudice, e le mani son quelle.

 Tavola ottava. Nella quale la turchinità della Fata si dispiega, e Pinocchio si fa piccolo piccolo, si adagia sul SuO grembo - e d'intorno il biancore, spruzzato solamente di aeree turchinità.

Tavola nona. Nella quale si racconta quanto multicolore sia la carrozza che porta al Paese dei Balocchi, e quanto da pacioso sapesse camuffarsi il viscido Omino di Burro.

Tavola decima. Nella quale canta l'indicibile, e allora non si deve dire niente, ma soltanto guardare, e canteranno gli occhi.

Tavola undicesima. Nella quale si racconta come la Stella della Danza, il famoso Ciuchino Pinocchio, sfinito trasmutasse in foca o cane, figura del dolore, e l'inesausto pUbblico impietoso godesse. Restava, di salvezza, solo il mare.

Tavola dodicesima. Nella quale si racconta deI terribile Pescecane, dei suoi denti e il suo dentro: finalmente di nuovo Geppetto. Dove però non si dice di una Prova d'artista che nel libro non c'è - e chissà mai perché: è solamente in mostra che se ne può vedere lo splendore -: un Geppetto ch'è come un Profeta. (Fuori il Profeta, Lele, alla ristampa.)

Tavola tredicesima. Nella quale si racconta di come Enea si caricasse Anchise sulle spalle e lo portasse in salvo, lasciandosi alle spalle un passato in sfacelo di facce tristemente polimorfe. C'era, nel Pinocchio, il lieto fine, e Luzzati lo scrive in stampatello, lo scrive proprio qui. Dove si dimostra che diventi bambino per davvero tuffandoti nel mare, nell' abisso, e salvando tuo padre.

Tavola quattordicesima. Nella quale si racconta di un tale 'vivissimo rubizzo Pinocchio, e di come un giorno incappasse in chissà che soffitta o che baule in cui gli accadde di trovare una foto: coniugi con figliolo, dotato di molto perbene ebetudine. Dal legno del palcoscenico, l'individuo di legno sorride.

Tavola quindicesima. Nella quale si racconta dell'inesistenza della presente tavola, e allora mi ci infilo per dire il mio rammarico a proposito della suddetta inesistenza. Rammarico da assenza che torna e si moltiplica nella sedicesima, nella diciassettesima, in tutte le seguenti, fino a traboccare anche al di là del Pinocchio.

Non voglio dire, con questo, che non ci siano in circolazione lavori di Luzzati. Ce ne sono, e bellissimi: dagli interamente suoi - testi e illustrazioni, pubblicati da Mursia -La gazza tadra, I paladini di Francia, La Cenerentola di Rossini, -  alle grandi tavole per Il pentolino magico (Laterza) di Massimo Montanari; dalle illustrazioni per l'importante e molto bello La bestia d'ombra di Uri Orlev a quelle per alcuni libri del grande Isaac Singer (Quando Shlemiel andò a Varsavia, Garzanti; Il golem, Salani; Le distese del cielo, Guanda; Mazel e Shlimazel, ovvero Il latte della leonessa, Salani).

Rasenta la non tollerabilità il fatto che la recente riproposta, nella Universale Economica Feltrinelli, del bellssimo libro di Giacoma Limentani, Gli uomini del Libro. Leggende ebraiche, sia avvenuta senza le splendide illustrazioni di Luzzati che comparivano nell'edizione Adelphi del 1975.

E sarebbe forse doveroso denunciare perlomeno per fUrto e omissione di soccorso i responsabìli  del fatto che ormai da anni non sia più possibile vedere libri come C'erano tre fratelli, Alì Babà e i quaranta ladroni, o l'antologico Tre fratelli, quaranta ladroni, cinque storie di maghi e burloni che uscirono presso la Emme Edizioni negli anni Settanta e immediati dintorni.

Libri abracadabranteschi,nei quali si dispiega in tutte le sue articolazioni la variegata arte del cantastorie LuzzatÌ, narratore per colori parole disegni suoni ombre che si può frequentare con estremo piacere a partire dai tre anni fino a per sempre.