| Una specie di fiaba da Linea d'Ombra annata 1989 | 
                                                                                                           

| Il
          nuovo feticcio del bambino cognitivo 
 Ormai
            si chiude, il secolo. E ne ha visti cadere, di miti e di mode, di
            fasti e di gesti, di ruoli e di voci, che magari a loro tempo
            sembravano eterni. Eppure qualche cosa, e non delle migliori, 
            sembra piuttosto intenzionata a sopravvivergli. Più d'una, ma qui
            voglio dirne una sola. Proprio nel 1900, quando nasceva il secolo, Rilke scriveva le Storie del buon Dio (ripubblicate ora nella TEA, nella traduzione di Vincenzo Errante e con una bella introduzione di Fabrizia Ramondino), e in una aveva messo un maestro che "diceva, aggiustandosi di continuo gli occhiali sul naso: 'lo non so chi abbia raccontato questa storia ai bambini. Ma ha fatto, comunque, malissimo a sovraccaricare e a tendere la loro fantasia con 
  simili mirabolanti
            invenzioni. Si tratta d'una specie di fiaba...' " Il
            segno è lo stesso che caratterizzava l'idea del bambino tutto
            intuizione, fantasia, sentimento: schematizzazione riduttiva, nel
            migliore dei casi; ideologia, falsa coscienza, comunque. Ma i
            bambini, per loro fortuna - e per quella di tutti - sono un po' più
            variegati, e dentro questi schemi non ci stanno. Forse ci sta il
            Bambino, ma i bambini veri no, perché sono fatti anche di
            fantasia, ragione, riflessione, sentimento, corpo, passioni. E tutti
            in misura diversa, perché intervengono in loro - così è per tutti
            - mille cose. E ci sono quindi bambini ricchi e bambini poveri;
            bambini assediati e bambini abbandonati; quelli che hanno la colf e
            quelli che hanno l'assistente sociale; alcuni hanno dei fratelli,
            altri dei televisori, altri fame, altri la puzza sotto il naso. E
            così ci sono bambini tristi, allegri, noiosi, antipatici, saggi,
            saccenti, arguti, crudeli, teneri, costruiti, affettuosi, spontanei,
            ricci, estroversi, fantasiosi, appassionati, silenziosi, cocciuti,
            parolai, simpatici... - ognuno può proseguire, basta guardarsi
            intorno.    La
            rivendicazione "tecnicistica" a me pare una spia
            significativa d'una crisi e di un vuoto; ma la necessità di fare
            fronte a un vuoto non dovrebbe portare semplicemente a cercar di
            coprire il buco, quanto piuttosto a cercare di trovare un rimedio
            vero, di riempire il vuoto con il quanto di meglio - il meglio di sé,
            della propria
            storia. E Nelle
            Storie del buon Dio la "dimensione pedagogica" è
            insistita: Rilke le dedicò alla pedagogista Ellen Key; contengono
            diversi bambini; riferiscono a più riprese del fatto che i bambini
            quelle stesse storie le hanno risapute, trasmesse, capite,
            apprezzate, cambiate, amate, vissute; avevano come sottotitolo
            "Ai grandi perché le raccontino ai bambini". Fabrizia
            Ramondino, nell' introduzione, interrogandosi sul senso di quel
            sottotitolo, scrive: "Alla luce anche delle numerose critiche
            di Rilke alla scuola e alla pedagogia del suo tempo (e, a mio
            avviso, del nostro), io lo intendo così: solo i grandi che hanno
            mantenuta viva in sé la rivelazione di Dio, che come tutti i
            bambini hanno ricevuto nell'infanzia, anche se non sapevano che era
            lui, saranno in grado di raccontare storie ai bambini, cioè di
            aiutarli a crescere; e mantenere viva in sé questa rivelazione
            altro non significa che disseppellire il Vivere,
            crescere. Non: sopravvivere; non: trascinarsi; non: adagiarsi
            all'esserci consentendo comunque. Vivere e crescere - cambiare,
            quindi; magari guardando e prendendo in mano il Qui, per progettare
            un Altrove che non si trovi altrove ma sia qui, che sia il Qui
            trasformato. Allora però è necessario che dietro il raccontare,
            prima del raccontare, ci sia qualcosa di enorme, come il senso
            stesso della propria esistenza. Una passione vera, almeno,
            che muova ed accompagni -
            che perseguiti,
            forse; che non lasci respiro al respiro affannoso, all'arrancare, e
            che aliti invece il proprio respiro ampio. Si può chiamare amore,
            dolore, Dio  ********************** Si oscilla spesso - maestri, genitori - tra due modi di porsi in rapporto ai bambini. Da una parte sta la schiera dei burrosi che, in un' orgia di diminutivi e leziosaggini, 
   
            bamboleggiano tristamente
            e ridicolmente e comprimono i bambini in un preteso "mondo
            dell'infanzia" intollerabilmente falso; dall' altra sta
            l'armata dei seriosi pontefici, torrenziali e cupi elargitori di
            sentenze che non sanno vedere altro che sé - 
            un sé imperiale,
            invasore, cui l'altro deve solo assoggettarsi. Eppure l'infanzia
            è
            un tempo non eludibile della vita di ogni uomo e dovrebbe essere
            considerata come tale. E si dovrebbe acquisire come qualcosa
            ben  provvista
            di senso quella che solo apparentemente è una sciocca tautologia: i
            bambini sono bambini.  "Vivere
            è una faccenda molto pericolosa", dice ripetutamente il
            narratore di Grande sertao di Guimaraes Rosa; e lo si scopre
            tutti" e non solo per gli inevitabili inciampi nelle insidie,
            nei trappoloni biologici e storici, più e più volte. Anche i
            bambini. Malattie, sbucciature, ferite, schiaffi, sgridate, maniglie
            irraggiungibili, silenzi; e poi il buio, la pioggia, l'arrivo di un
            fratello che si ruba la mamma, e la biglia caduta nella grata,
            l'amico che non viene, le figurine perse, la paura, le strade
            impraticabili, minacce Spesso,
            quando un bambino piccolo cade, succede che da terra guardi verso la
            madre restando un po' come in sospensione, quasi
            a cercare in lei qualche indizio -
            di serenità o di
            ansia  I
            bambini non hanno solo orecchie o solo occhi; hanno anche antenne, e
            possono anche essere prodigiose, che usano per captare e filtrare,
            fagocitare o respingere quel che gli ronza intorno. E Indifferenti
            a tutto, privi di passioni profonde, non sono soltanto molti
            genitori; per esempio nelle scuole, d'ogni ordine e grado,
            insegnanti così ce n'è quanti si vuole. E questo è un dato
            piuttosto disperante, perché quello dell'insegnante è un mestiere
            che offre molti spazi per le "rivelazioni" -
            e questo non ha nulla a che fare
            con la "missione", ha molto a che fare invece con il fatto
            che sono in ballo persone, persone vive, che hanno voglia di vivere
            davvero e lo dicono forte tutti i giorni. A questo riguardo c'è
            invece molta reticenza. Ragioni, e responsabilità, ce ne sono
            diverse: dello Stato, del sindacato, dell'istituzione, della
            categoria, delle persone: tagli economici, formazione inesistente,
            stipendi sconfortanti, boicottaggi morali e professionali, parole
            vuote, dolori privati, burocrazia mortale, ingerenze concordatarie,
            mentalità meschine, frustrazioni sistematiche, opportunismi,
            campagne elettorali, falsi nemici, bambini di plastica,
            misconoscimenti, latitanza dell'inventiva, "sociale"
            asociale, assenza di progetti, genitori miasmatici, pavidità di
            generi svariati... Già questo non è poco, e non è tutto. E certo,
            pur non essendo tutto, è più che sufficiente a scoraggiare; ma
            siamo qui, e questo essere qui dovrà pur darsi un senso, sennò sarà
            insensato anche il fatto di esserci. E allora direi che qualcosa si
            potrebbe cercare di farla fin da subito: oltre che respirare sul
            collo di qualunque ministro, e magari piantarci anche i denti, darsi
            una piattaforma - nel senso sindacale e nel
            senso dello spazio da cui spiccare il volo -;
            una piattaforma
            donchisciottesca, da perseguire e praticare donchisciottescamente,
            che si ricava dal Gennariello di Pasolini: "negli
            insegnamenti che ti impartirò (...)
            io ti sospingerò a
            tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto
            per ogni sentimento istitutivo. Tuttavia il fondo del mio
            insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità
            e i sentimenti, di cui laicismo consumistico ha privato gli uomini
            trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di
            feticci".                  
            . Non
            sono qui a strillare reattivamente, o missionariamente, "per
            l'educazione, contro l'istruzione"; voglio solo dire che il
            "bambino cognitivo"rischia di non essere altro che un
            nuovo feticcio. Adorarlo? No, grazie, non è il caso, abbiamo già
            dato. Istruzione ce ne vuole tanta, ai bambini è giusto far
            apprendere molto, e facendolo si risponde positivamente a un loro
            bisogno, a una loro richiesta; ma è necessario assumerli interi,
            perché possano cominciare ad essere sapienti e non saccenti, perché
            possano cominciare ad essere artefici appassionati del proprio stare
            nel vasto mondo e non artifici appassiti ancor prima di fiorire,
            perché possano capire e sentire il proprio sentire e il proprio
            capire, perché possano cominciare a capire e sentire che il proprio
            sapere può portare non soltanto a consentire ma anche a divergere. Però,
            ancora una volta, come il bambino piccolo caduto, i bambini si
            guardano attorno. Si guardano attorno e imparano, dai loro modelli.
            E possono imparare che si può ascoltare; che si può parlare; che
            si può leggere; che si può scrivere; che si possono avere e
            comunicare sensazioni convincimenti e dubbi; che si può spaccare in
            quattro un capello ma si può anche -
            ed è più divertente
            - essere almeno in due o, meglio ancora, in quattro, ognuno con
            almeno quattro diversi capelli da spaccare - in quattro, e poi in
            quattro - e poi da
            intrecciare insieme; che un punto di vista
            non è mai un punto ma almeno una montagna; che si può capitare a
            Lilliput ma anche a Brondingnag; che il vasto mondo è "grande.
            Ma tutto era ancora più grande quando si ascoltava una cosa
            raccontata" (Guimaraes Rosa, Una storia d'amore, Feltrinelli,
            1989); che immaginare e cambiare appartengono alle possibilità
            umane e sono cose magiche proprio perché possono avvenire davvero;
            che... mille e una altra cosa. L'essenziale è che possano vedere
            qualcuno che ascolta, parla, legge, scrive, dubita, riflette, si
            emoziona, scava e non si accontenta e non si basta, e scruta e
            scruta, e racconta e racconta, e cammina e cammina. E tutto dentro
            la situazione, quella lì, con tenerezza e furia, con passione. Bisogna
            fare qualcosa, contro il maestro di cui parlava Rilke, contro
            le sue tante reincarnazioni dei nostri tempi -
            perfide o paurose
            che siano. Bisogna contrastare, contrapporre. E si può
            contrapporgli, per esempio, una donna della Storia d'amore di
            Guimaraes Rosa: "Gianna Xaviel si entusiasmava tutta. Una capacità,
            che nessuno regolava, s'impadroniva di lei, in certi momenti. Il re,
            il vecchio re, si teneva la barba, le mani piene di brillanti di oro
            di anelli; il principe amava la fanciulla, recitava affettuosità,
            esclamava e sospirava; la regina filava alla rocca e diceva il
            rosario; il taf-e-zaf delle spade dei guerrieri indiavolava
            nell'aria lì davanti: la gente vedeva il brandire delle spade, che
            tintnivano, sfavillavano; sentiva tutti cantare le loro battute, il
            suono quella voce dell'uno e dell' altro. Gianna Xaviel diventava
            un'altra. Al chiarore della lanterna, c'erano momenti in cui lei era
            vestita A
          fronte di questo appassionarsi, forse, si può trarre energia per un
          nuovo entusiasmo, un nuovo appassionarsi, per dare vita e nutrimento
          adeguato alle urgenze interiori. Quale storia? E quali storie, in generale, per i bambini nostri? C'è molto da dire, in merito, ma - come direbbe il Kipling"senza trombe" delle Storie proprio così e di Puck delle colline, e questo è già un riferimento, seppur parziale e tendenzioso -... ma, appunto, questa è un'altra storia. |